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Basta portare un nome

Toy Story 2: appartenere a qualcuno

Qual è il momento in cui smettiamo di essere bambini?

Qual è il nostro legame affettivo con le cose che hanno segnato le tappe della vita?

L’inarrestabile coppia di Woody e Buzz ci ricatapulta nel mondo dei giocattoli, questa volta con l’audacia giusta per parlarci di appartenenza.

In “Toy Story 2”, sequel di quel magico 1995, troviamo Andy che sta crescendo e ora parte per un campeggio. Si ritorna a quel tema tanto caro alla saga, di entrare delicatamente nelle fasi della nostra vita: l’infanzia nel primo, e ora il lento inizio dell’adolescenza.

Mentre Andy è via, la mamma organizza un mercatino per vendere la roba vecchia che non si usa più. Tra questa, un giocattolo rotto che Woody col solito cuore intrepido decide di salvare. Nel tentativo di farlo però, viene rubato da un collezionista con l’intenzione di esporlo ad un museo d’antiquariato in Giappone.

Questa storia mi smuove qualcosa come succede ogni volta con Toy Story, perché mi parla di appartenenza, di famiglia.

Ogni volta che guardo Woody mi ricordo del suo speciale legame con Andy, con il bello di essere felici perché ci ama qualcuno.

La famiglia è la culla in cui crescono i nostri valori, è il motore dei nostri pensieri e abitudini, è l’energia che ci fa muovere davvero.

Prima la paura era di essere sostituito con un giocattolo migliore.

Ora Andy sta crescendo, e la paura è di non essere più utile per un bambino. È una lotta contro il tempo che scorre, con il naturale passare delle cose.

Nella testa del cowboy si fa strada il timore di un Andy che crescendo smetterà di giocare.

È una sensazione familiare… come tutte le volte in cui guardando dalla finestra penso al futuro, a dove finirò un giorno, a cosa mi aspetta dopo, a quale senso darò alle cose che dovrò fare.

A inizio film, il ragazzino aveva provocato per sbaglio uno strappo al braccio di Woody e su questo dettaglio mal interpretato fa leva il perfido Stinky Pete, con lui rinchiuso in un ufficio.

Questo Andy quanto bene ti vuole?”

gli viene chiesto, col cinico sguardo di chi non crede che le cose durano.

A volte non riusciamo proprio a vederlo questo amore. L’incidente del braccio strappato, del mercatino dei giocattoli rotti, del fatto di avere un proprietario che non si prende debitamente cura di te… sono tutti modi per domandarci una cosa:

crediamo alla durata dei legami?

Quante volte si insidia nel cuore la paura che le persone non ci vogliono bene fino in fondo, che prima o poi tutto finisce e saremo dimenticati.

Woody vede la galleria dei gadget storici che portano il suo nome e la sua faccia: era un giocattolo famoso all’epoca dello Sputnik, assieme ad altri tre personaggi faceva parte di un corredo.

Viene tentato dalla sua immagine, dal sentirsi importante, e per un po’ si dimentica di avere un proprietario che lo aspetta.

Così mi succede tutte le volte che mi dimentico del legame con la mia famiglia e le persone che fanno parte della mia vita… le metto in secondo piano, nella posizione sbagliata della classifica, lasciando spazio al superfluo.

Woody è ad un passo dal cedere e farsi rinchiudere in un museo dentro una teca dove certo,

sarà guardato per l’eternità da generazioni di bambini, ma senza nessuno che realmente lo ami.

Eppure era proprio lui ad aver detto che “vale la pena vivere anche se c’è un solo bambino che ti ama”. Sembra se lo sia dimenticato.

Ma è solo quando rincontra Buzz e la squadra di amici che torna in se stesso. Essi hanno affrontato mille pericoli per venire a salvarlo e lo aiutano a tornare lucido. Perchè l’amicizia ti apre sempre gli occhi.

Lo aiuta anche quel gesto, il solito gesto che li accomuna: guardare sotto la scarpa e leggere il nome di “Andy”.

Ed ecco che ne faccio tesoro anche questa volta: che chi ti ama ti sveglia,

e che è una vita vuota vivere senza qualcuno che ti vuole bene.

Woody e i suoi amici tornano così verso casa in mezzo alle solite peripezie del viaggio, e portano con sé nuovi compagni, tra cui Jessie che era stata lasciata da una bambina troppo cresciuta.

Ora per lei c’è una nuova possibilità, ricomincia la vita proprio col far parte di una famiglia.

Anche io ho scoperto che è bello sentirsi legati a qualcuno, che abbiamo un posto nel mondo e che appartenere a qualcuno è una forma di libertà.

L’insegnamento più grande, però, lo trovo in quel gesto straordinario, per il fatto che non saremo dimenticati finché avremo un nome inciso sotto la scarpa.

Quello è metafora di chi ci ama e ci fa sentire la sua presenza, si prende cura di noi anche nel silenzio, e ci ricorda la pienezza di avere un posto. È famiglia.

Posso anche non essere perfetto, tanto l’unica cosa che rimane davvero è l’affetto, è il legame.

E soprattutto, ciò che resta è quella sensazione vera, che descrive Jessie parlando della sua proprietaria, che

“Quando gioca con te, anche se non puoi muoverti è come se fossi vivo

perché è così che lui ti vede!”

Che questo sguardo straordinario possa metterci in moto, agitarci e farci sentire vivi.

In qualunque posto, in qualunque tempo, in qualunque vita.

David Martìnez

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