Attualità

Biotestamento. Spunti per riflettere

Alcune riflessioni sulla recente legge approvata da parte del Senato della Repubblica

La recente approvazione da parte del Senato della Repubblica della legge in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento ha suscitato un grande dibattito, e spesso lacerazioni, anche fra gli stessi cattolici. Nelle mie argomentazioni, la prospettiva che vorrei assumere è quella a cui più volte papa Francesco ci ha spronato: rinunciare a “quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano” per accettare di “entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri” (AL 308). La realtà è superiore all’idea e dalla realtà vorrei partire, al di là di ogni contrapposizione ideologica.
Lo sviluppo delle tecniche biomediche ha portato a risultati prodigiosi negli ultimi anni: l’età media della popolazione si è notevolmente alzata e le cure sanitarie si stanno orientando verso una medicina detta delle 4P: personalizzata, predittiva, preventiva e partecipativa. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute.
Cosa pensare allora delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT)?
Le DAT cercano di mettere al primo posto l’autonomia del paziente. E questo a causa di una diffusa paura nella popolazione, da anziani, di finire attaccati per anni alle macchine in una clinica. Ognuno ha diritto a vivere la propria morte in modo umano, senza trasformare la propria fine in un artificio tecnico disumanizzante o in un inutile dispiegamento di mezzi eroici che non portano da nessuna parte: il valore da tutelare è la persona sofferente.
Se da una parte le DAT rispettano e promuovono l’autonomia che ogni individuo deve avere nelle scelte che riguardano la sua salute (cosa che la nostra stessa costituzione sancisce), dall’altra però rischiano di far scivolare la relazione di cura, basata sull’alleanza terapeutica fra medico e paziente, verso una deriva contrattualistica. Mi spiego.
La legge in materia assimila le DAT al consenso informato, ma fra i due esiste una differenza sostanziale. Se il consenso informato si riferisce ad una fattispecie concreta in un regime di alleanza terapeutica, le DAT, pur essendo stabilite in libertà e consapevolezza, essendo redatte “ora per allora” saranno per forza generiche, prescindendo dal tipo di patologia e senza la conoscenza delle circostanze che si verificheranno. Però, per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente sproporzionato (e sia giusto sospendere le cure) non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale.
Quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture gravose e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per questo, in quei momenti drammatici, l’alleanza terapeutica deve proseguire, tenendo presenti i desiderata del paziente (redatti anticipatamente) con piena responsabilità dell’equipe medica nella presa in carico del paziente stesso. Se si prescindesse da questo tipo di relazione, esaltando l’autodeterminazione del paziente a scapito della relazione di cura (ovvero: “quanto ho scritto anticipatamente si deve fare senza se e senza ma”), la deriva eutanasica avrebbe inevitabilmente libero corso.
E la nutrizione e idratazione artificiali? Sono noti i pronunciamenti del magistero sulla necessità di fornire sempre, in linea di principio, la nutrizione e l’idratazione artificiali (pur individuando casi in cui tale somministrazione apparirebbe impossibile). La legge approvata invece, consentirebbe al paziente di disporne la sospensione. Anche qui vale il discorso fatto sopra: l’effettiva proporzionalità andrebbe valutata sulla base dello stato fisico ed emozionale del paziente e nel rispetto delle sue convinzioni più profonde, sempre in regime di alleanza terapeutica.
Concludo con una provocazione; oggi i nostri dibattici si focalizzano così tanto sulla morte biologica da farci dimenticare come questa sia l’ultimo atto di una morte ben più temibile, la morte sociale. Alcune volte gli ultimi momenti di un paziente vengono vissuti in una stanza di terapia intensiva, isolato dal mondo, in un via vai di gente interessata più ai valori del bip delle macchine che alla reale condizione del paziente. Le strutture sovraffollate, la fatica dei medici, spesso soli nel gestire carichi emotivi più grandi di loro e i tagli alla sanità peggiorano il quadro. Non è forse arrivato il momento di fare una battaglia culturale perché i percorsi di accompagnamento al fine vita siano percorsi di umanizzazione del morire?

Papa Francesco ha ricordato recentemente ai medici di tutto il mondo che la medicina prima di essere una tecnica o una tecnologia è un’arte animata dall’amore per il prossimo e dalla compassione. La chiave dell’agire medico è l’accompagnamento del paziente in un percorso speciale: la terapia. E questo richiede quella sapienza del cuore, di biblica memoria, che sappia “discernere” il corpo di Cristo, per trattarlo con amore e compassione.

Don Diego Puricelli.
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