Se vi parlassi di questo, che cosa vi direi?
Vi metterei solo in guardia su una storia d’amore e di perdita.
Questa è una parte dell’incipit in cui, nei primi secondi, la voce di Richard Jenkins ci introduce nell’atmosfera romantica e surreale del film “La forma dell’acqua”, che domenica scorsa ha vinto l’oscar come miglior film dell’anno.
Assieme ad un amico sono andato a vederlo al cinema, sapendo della candidatura, qualche ora prima che Guillermo Del Toro ricevesse la statuetta come miglior regista e per il miglior film.
E’ la storia d’amore di due anime sole, in piena Guerra Fredda, che mi ha fatto nuotare tra le acque della mia storia e di quello che sono. L’acqua, ciò da cui sono nato e che compone il mio organismo, non posso farne a meno per vivere, e la sua forma. Ma quale?
Tante volte la mia testa prende il sopravvento sul cuore e arrivo a pensare che non sarò mai all’altezza di ciò che mi viene chiesto, che non sarò capace, che ho paura delle scelte che faccio e dei miei errori e alla fine mi sento debole, mi sento fragile.
Davanti ai miei occhi allora appaiono questi due personaggi: Elisa, donna delle pulizie in un laboratorio militare, e una creatura marina, catturata e studiata per esperimenti scientifici. Entrambi hanno un limite, una privazione: lei è muta e lui non ha mai parlato. La loro incomunicabilità lascia spazio al silenzio, che svuota ogni cosa del superfluo e carica i loro sguardi e i loro corpi di importanza e che solo così si possono incontrare.
Intorno a loro si costruisce un mondo che è l’imperfezione delle cose e in cui i personaggi vivono nella marginalità: sono persone che partono dal basso e che non sono viste, come l’amica Zelda, donna delle pulizie nera nell’America dell’emancipazione razziale; che sono rifiutate, sputate dal resto del mondo e accantonate in una camera di condominio, come l’amico gay, Giles, pubblicitario fallito a causa della fotografia. È lui ad un certo punto del film a dire: “Siamo tutti soli!”. Paiono tutti condannati alla loro solitudine, alla tristezza di una vita quotidiana senza senso fino a quando sarà tutto ribaltato.
Non è una storia di riscatto, bensì un racconto in cui l’amore vuole amare anche in mezzo al dolore, anche quando tutto intorno crolla.
Sto cercando di imparare giorno dopo giorno, ad avere fede nella vita, in Dio che si prende cura di me anche quando voglio scappare e nascondere la faccia a cento metri sotto terra… perché vado bene così e non importa se non mi sento all’altezza; mi sento amato lo stesso anche quando sbaglio da Qualcuno che non mi guarda con giudizio e non basa il nostro rapporto su un calcolo, su un risultato, ma sul nostro esserci l’uno per l’altro.
In questa vicenda di solitudine e incomunicabilità, Elisa non può parlare, ma si lascia guardare e guarda, condivide il suo limite con qualcuno senza paura, fino a dire: “Lui mi vede per quello che sono”.
Del Toro è un regista che rappresenta il disordine, l’incompleto, il fragile, il ribaltamento dell’apparenza con delle storie credibili nella realtà, ma con i codici della fiaba, quasi a dire che la realtà non è come sembra, ma dietro a quello che vediamo c’è sempre un senso nascosto, una realtà da scoprire solo se abbiamo occhi un po’ più spirituali per vedere.
La creatura marina infatti si rivelerà essere un dio che guarisce, che estirpa il male, che salva ciò che è imperfetto. Sì, si salva ciò che è imperfetto!
Nella sua vasca da bagno Elisa quotidianamente si masturba e non è gesto volgare, ma urlo estremo della sua solitudine che vuole essere colmata. Non a caso, quando salverà la creatura dal laboratorio, si prenderà cura di lui esattamente nella vasca da bagno dove mangerà, dormirà e vivrà.
È allora la presenza di Qualcuno che abita la mia solitudine, che viene a vivere dove io ho urlato, che mi ridà la dignità di essere umano, ripeto: anche se sono imperfetto!
Ma questa storia è anche un atto di fede: la donna ama una creatura di cui non sa niente, di cui non conosce la storia, le potenzialità, il nome. Ha soltanto la certezza che lui l’ha vista, l’ha guardata nel silenzio e le consegna un valore che il mondo non le dà.
La nostra storia è importante, è quello che siamo, è quello che abbiamo vissuto, è quello che ci ha condotti a dove siamo oggi e non possiamo rigettarla solo perché è andata storta. Anche nel caso più drammatico, la tua storia ha un senso.
Sei prezioso perché come te ci sei solo tu, sei il frutto di una storia che può diventare dono, per i tuoi figli, per i tuoi amici, per il mondo che hai intorno a te….
In una scena, Elisa ha in mano un biglietto che dice: Il tempo è un fiume che viene dal nostro passato”, proprio a lei, che è un’orfana abbandonata in un fiume e che si innamora di un uomo-pesce. Non credo sia ironia, ma il pensiero di un regista che forse ha accolto lui per primo la sua storia e ha compreso che siamo belli anche se siamo storti e incompleti.
Nella fine del film le cose si ribaltano nuovamente quando sarà la creatura a dover salvare Elisa, colpita a morte: la porterà sott’acqua dove noteremo sul suo collo le cicatrici del taglio alla faringe per cui ha perso la voce e che le permetteranno di tornare a respirare come fossero un paio di branchie.
Noi risorgiamo dalle nostre cicatrici, le ferite diventano feritoie e allora la paura scompare. In questo ci credo e invito chi sta leggendo a provare a crederci almeno una volta.
Ed è così che esco dal cinema più ricco, emozionato, desideroso di ringraziare per la mia vita, per essere qui oggi, per la possibilità che ho di scegliere come vivere ogni cosa!
È la forma dell’acqua.
Ma torno a quella domanda iniziale: quale forma?
Ho la certezza che l’acqua non ha una forma, ma che alla fine acquisisce la forma di ciò che la abita. Come l’acqua del film che si plasma sulla forma della principessa senza voce e della sua creatura amata; anch’io voglio entrare nella forma di una storia d’amore con chi mi ama anche se sono imperfetto.
Il film si conclude con questa frase:
Incapace di percepire la tua forma, ti ritrovo ovunque intorno a me.
La tua presenza mi riempie gli occhi con il tuo amore e commuove il mio cuore, perché sei ovunque.
Sì, Tu sei ovunque perché sei amore che riempie gli occhi e il cuore di uno imperfetto come me. Mi torna in mente il fatto che una delle bellezze artistiche più grandi è la Torre di Pisa, non perché è famosa, ma perché rimane in piedi pur essendo storta.
Io voglio questa forma.
E voi?
David Martinez