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Dai loro frutti li riconoscerete

La simbologia del Vangelo riesce in maniera immediata a trasportare il lettore in luoghi e atmosfere precise, anche in poche righe, con poche ma soppesate parole capaci di restituire vivide e palpabili emozioni concrete, talvolta irrazionali.

«Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!

Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi?

Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni.

Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco.

Dai loro frutti dunque li riconoscerete»


(Mt 7, 15-20)

I frutti menzionati sono l’uva, da cui si produce il vino, il sangue di quel Cristo che sacrifica la vita per noi, per far sì che la vita scorra in noi, e il fico, noto ai popoli dell’antichità e nell’Antico Testamento come simbolo di fertilità e vita gioiosa, emblema della luce, della forza, della conoscenza, dell’immortalità. Inoltre, il fico rappresenta anche l’asse del mondo che collega la terra al cielo.

L’uva viene accostata agli spini e i fichi ai rovi; l’albero marcio viene gettato tra le fiamme! Una simbologia completa in grado di ricreare un’atmosfera infernale. Infatti, il sentiero del mio pensiero, leggendo questo Vangelo, conduce verso l’opera del Sommo Poeta: La Divina Commedia.

In particolare, è proprio nell’Inferno, al Canto XIII, nel girone dei suicidi e degli scialacquatori in cui l’ambientazione è resa cupa e spaventosa dalla presenza invadente di rovi, sterpi, spine, rami di pruni irti e avviluppati su sé stessi. Rami fragili e delicati che al loro spezzarsi producono urla di dolore poiché dentro queste piante risiede l’anima di coloro che hanno commesso violenza contro il proprio corpo: i suicidi.

Questi dannati subiscono la pena eterna di non aver più corpo alcuno, bensì solo un’anima bloccata nell’immobilità di una pianta malsana e improduttiva.

“Non fronda verde, ma di color fosco; 
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti; 
non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco:”


V.v. 4-6, Canto XIII, Divina Commedia

Non c’era nulla di verde, il colore brillante della natura, ma tutto era cupo e spento. Le piante, gli alberi non avevano rami dritti, ma annodati e intricati tra loro. Non c’erano frutti, ma spine avvelenate.

Mi piace immaginare che Dante abbia letto questo passo del Vangelo e insieme alle numerose simbologie legate all’accostamento uomo/albero sia stato in grado di realizzare questo Canto tanto meraviglioso quanto violento, dove con parole dure ci dice che

l’uomo inconcludente e misero è come un albero marcio che addirittura non produce né frutti né vivi di colori.

È un’esistenza già morta, spenta, avvelenata!

Dante conduce il suo viaggio nell’aldilà non per mostrarci quello che ci aspetta, bensì per restituirci uno sguardo nuovo nei confronti della vita: un manuale supremo del comportamento dell’uomo.

La Commedia come il Vangelo parla ancora e parlerà in eterno, siccome tratta di una materia che, in fin dei conti, rimane nei secoli dei secoli: la strada dell’uomo verso l’infinito, verso l’eterno e quindi verso Dio.

E la ricerca di Dio cos’è se non la ricerca d’amore: un’intricata e immensa meta portatrice di vitalità in grado di dipingere le nostre vite di un colore verde brillante.

Gesù ci dice di avere pazienza, di osservare, di vivere sempre curiosi e attenti di ciò che ci circonda e delle persone di cui ci circondiamo, perché un albero fa germogliare i suoi frutti, lentamente, col tempo, durante la stagione adatta, dopo essersi sottomesso al dominio delle stagioni, secche o gelide. Gli uomini compiono azioni, scelte, opere nascondendole dietro maschere di bontà e di moralismi.

Ma cosa li renderà realmente credibili se non il risultato e il gusto dei loro frutti?

Quindi se siamo costretti ad aspettare la stagione dei frutti degli alberi, ci sarà sempre un tempo in cui i lupi ci sbraneranno? Il tempo in cui non riusciremo a essere divorati dalle menzogne delle pecore travestite? Non credo sia proprio così!

Perché grazie a Dio, grazie a Dante, grazie ai loro frutti eternamente maturi, perpetui nella loro impossibilità di decomporsi, anzi, in grado di rinnovarsi e resuscitare ogni giorno, rimanendo aderenti alla contemporaneità, abbiamo l’occasione di cogliere preziosi consigli per vivere da uomini veri, ricchi, capaci di distinguere coloro che potrebbero ingannarci senza dover subir prima l’inganno. Ci donano l’esperienza.

L’esperienza per vivere da uomini giusti.

Dopo aver attinto dai loro alberi sempre verdi, è utile e genuino coltivare i semi dei loro frutti nel nostro campo, nel piccolo orticello, per far germogliare il Bene: aspra impresa su cui lavorare con la dura fatica dei contadini.

Matteo Malaisi

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