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Dante, noi e la selva oscura

Partenza di un viaggio verso la luce

Parliamo spesso dell’attualità di Dante e della Divina Commedia, ma sappiamo che l’espressione è impropria, riduttiva, non rende ciò che vogliamo dire.

È difficile spiegare che la Commedia non è solo un grande libro ‘che non ha mai finito di dire quel che ha da dire’, un inossidabile classico ‘che trasportato in un altro sistema culturale mantiene intatto il suo valore’, e che, se è senza dubbio vero che essa ‘provoca incessantemente pulviscoli di discorsi critici’ su noi, come calvinianamente fa ogni buon classico, la sua potenza e il suo fascino non si limitano a questo. Essi sono sempre più in là, più su, più in profondità di qualunque definizione e di qualunque formula abbia tentato di impacchettare l’opera dantesca.

Dopo secoli di esegesi, il lettore del XXI secolo è arrivato perlomeno alla maturità di accettare che la Divina Commedia è ‘un oggetto poetico diverso da tutti i precedenti, perché fonde biografia personale e cronaca recente, storia e interpretazione filosofico-teologica, tecnica retorica e abilità narrativa, conoscenza intellettuale e alta fantasia’ (A. Casadei, Dante). La compresenza di questi elementi dà all’opera un dinamismo che ogni volta tentiamo invano di afferrare con la comprensione di uno solo dei suoi aspetti, e un realismo che si estende alle vicende interiori come alle visioni apocalittiche.

Insomma non riusciamo a spiegare che la Commedia è un libro vivo.

Al suo cuore palpita una storia reale, umana, personale e universale al tempo stesso, tradotta in alta finzione, quindi potentemente simbolica, a tratti archetipica, generatrice di altre storie.

Ed è una storia di salvezza.

Come possiamo leggere allora questa storia così profondamente complessa?Sono fondati i significati che la sua narrazione potente risveglia e ha risvegliato nei lettori di tutte le latitudini? O solo gli esperti ‘della volontà dell’autore’ possono fornire interpretazioni autorizzate?

L’impossibilità di cogliere insieme i multiformi livelli dell’opera (dice Casadei) ci legittima a seguire Dante nel viaggio nei tre regni dell’aldilà (che è molto anche un aldiqua, come vedremo) e a concentrarci su singoli aspetti che possono illuminare il nostro tempo e il nostro mondo e dar vita ad interpretazioni nuove, certo fondate su solide basi testuali, storiche, filologiche.

Tanto più che non le si può resistere, perché l’esperienza della salvezza è il dna di ogni storia e, mi azzardo, della vita umana, in cui ogni giorno siamo chiamati ad affrontare l’esperienza del male, a liberarcene e a ritrovare una pienezza che il male ci ha sottratto, nascosto, sfigurato, agendo, come mostreranno le storie della Commedia, in due direzioni: allontanandoci dalla realtà e distorcendo la nostra umanità. (Inferno-purgatorio-paradiso? per ora lasciamo il punto interrogativo). E forse allora non c’è neanche bisogno che Dante ci dica di rappresentare allegoricamente ogni uomo:

ogni storia di salvezza è sempre una storia particolare ed universale, al tempo stesso la storia di un uomo e la storia di tutti.

Ecco, in questo anno dantesco vogliamo fare un po’ di strada con il poeta, leggendo alcuni episodi del libro-esperienza che è la Commedia,

alla ricerca di scintille di luce per i nostri giorni.

Tutti sanno dove inizia il viaggio di Dante. Il tempo di leggere due versi e finiamo improvvisamente, anche noi, in un luogo buio, selvaggio, minaccioso.

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita.


(Inferno I, 1-3)

Anche noi, sì, anzi tutti: la coppia dei personali ‘nostra – mi’ che sovrappone il noi all’esperienza dell’io protagonista e il fatto che il viaggio del pellegrino si svolga nella Settimana Santa durante il primo Giubileo della storia chiariscono senza dubbio

che quella che sta per essere raccontata è una esperienza universale, il viaggio di tutti gli uomini,

che ‘nel mezzo del cammin’, cioè verso i trentacinque anni, cioè quando secondo la mentalità medievale sono nella Giovinezza, cioè nel pieno della propria vita, possono ritrovarsi senza sapere come in una selva oscura.

Il primo luogo in cui finiamo è un luogo allegorico, cioè una specie di metafora, una ‘selva che non è una selva’, un luogo che ritroviamo in tanta letteratura dall’Ade di Virgilio alle fiabe, e a cui tradizionalmente attribuiamo il significato di traviamento, di errore o di peccato. Ma non è uno sfondo muto, questa selva oscura ha la profondità del simbolo e l’acustica del mistero, ha tante cose da sussurrare, a saperla ascoltare. Anzitutto, non è un posto esotico, è un luogo della vita, parte dell’esperienza umana; come il poeta, tutti possono ‘ritrovarsi’, accorgersi di esserci dentro anche quando sono nel pieno delle proprie capacità e delle proprie sicurezze, quando non pensavano di aver smarrito la strada.

‘Ritrovarsi’ è però anche ‘ritrovare se stessi’, riprendere consapevolezza, e se la strada è smarrita vuol dire che non è persa per sempre, si può ritrovare. La selva comincia così ad alternare buio e luce.

Ma certo fa paura, anzi terrore, perfino a parlarne, a ricordarla. Un terrore profondo. È una ‘selva selvaggia’, disabitata, priva di altre persone, priva di relazioni, disumana, come il male che disumanizza, ed è ‘aspra e forte’, cioè accidentata, difficile da attraversare:

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!


(vv. 4-6)


Soprattutto è ‘amara’ come è amara la morte, solo un po’ di meno.

Tant’è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.


(vv. 7-9)

Una ricca serie di citazioni della Scrittura e della letteratura chiarisce che ‘amara’ è l’aggettivo proprio per ‘morte’. La cosa di per sé ‘amara’ è la morte, che compare in rima solo sei versi dopo ‘vita’, la prima parola in rima di tutto il poema. Opposizione evidente che connota la selva come una negatività totale. Specifichiamola: ‘amaro’ è anche l’opposto di una parola straordinariamente dantesca, ‘dolce’, l’aggettivo che nella Commedia s’attacca a tutto ciò che parla di felicità.

Questo è la selva: la valle dell’infelicità, il punto opposto a quello in cui Dio ha pensato le sue creature.

Il mistero di questa selva, però, è quello di essere anche il luogo in cui si prende consapevolezza di essere in una selva. Dante vi trova il ‘ben’, la consapevolezza del bene, di ciò che è bene, che è l’inizio della sua, della nostra,

di una storia di salvezza, che parte quando ci si accorge di averla persa, anzi smarrita.

Dunque, comodi (non troppo), il viaggio comincia lì dove siamo, negli inferni che si aprono agli angoli bui delle strade che facciamo, dove c’è un anticipo inaspettato di luce paradisiaca.

Massimo Leone

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