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Ricostruire la speranza: la storia di Boubou

Gli sbarchi dalla Libia con le migliaia di morti di cui abbiamo notizia non possono smettere di scuoterci e interrogarci su cosa possiamo fare per loro, come cittadini e come cristiani. Ecco allora che Sonia, una nostra amica, condivide con noi la sua personale esperienza in merito.

La scorsa estate, in collaborazione con l’associazione che si occupa dell’accoglienza di profughi a Biella, con alcune amiche ha organizzato alcuni incontri per gli immigrati, offrendo loro l’insegnamento della lingua italiana e attività di scambio culturale. Hanno così vissuto insieme anche pomeriggi di giochi, passeggiate, e pranzi in famiglia, in cui potersi conoscere e far sentire questi ragazzi accolti e amati.

Sonia vuole quindi riportarci la testimonianza di vita di uno di questi giovani, Boubou, proveniente l’anno scorso dal Mali: uno di quelli sopravvissuti al mare del dolore e dell’indifferenza che avrebbe voluto inghiottirli, e che ora conta anche su di noi per ricostruire la speranza.

 

Io sono Boubou. Ho 19 anni. Sono nato nel Mali in una regione che si chiama Kayes. Vengo da una famiglia formata da papà, mamma e mio fratello Souleman.

I miei genitori lavoravano. Papà era contadino: aveva una cinquantina di mucche, quindi si alzava presto al mattino. Mentre mamma era casalinga ed è morta di malattia quando io avevo solo cinque anni. Io e mio fratello siamo quindi cresciuti con l’altra moglie di papà che io chiamo “ mamma”.

Ho frequentato le elementari, le medie e una scuola per diventare segretario d’ufficio, che però non sono riuscito a terminare.

A un certo punto  mio padre per la transumanza si è trasferito a Tomboctou, una città lontana da Kayes, e sono stato obbligato a seguirlo. Ma, mentre viaggiavo per raggiungere papà in pullman, i ribelli jihadisti hanno sequestrato me e gli altri dieci ragazzi.

Ci hanno portati fuori dalla città in un campo d’addestramento per insegnarci a combattere. Se noi ci rifiutavamo di prendere le armi, ci picchiavano.

Una notte sono riuscito a fuggire da solo. Se mi avessero preso, mi avrebbero ucciso.

Con una telefonata scoprii che mio padre era stato ucciso dagli jihadisti. Non ho saputo mai come né dove sia stato ucciso.

Volevo assolutamente continuare i miei studi e lavorare, ma con l’inganno sono stato portato in Libia dove ho lavorato per sette mesi senza stipendio.

Quando ho cercato di far valere i miei diritti, il datore di lavoro ha chiamato la polizia che mi ha portato in carcere. Gli agenti mi hanno detto: “Qui non è come negli altri Paesi. Chi si lamenta, finisce in carcere”.

Sono rimasto in prigione per tre mesi. Poi avrei voluto tornare a casa ma sono stato costretto con le armi ad imbarcarmi per l’Italia.

È stato un viaggio massacrante. Siamo partiti a mezzanotte su un barcone sul quale stavamo in 105.
Non abbiamo mangiato né bevuto per tre giorni. E qui ho incontrato per la prima volta gli altri ragazzi di Pettinengo.

Nella notte è finito il carburante. Per le cattive condizioni di viaggio tre ragazze sono morte. Siamo stati soccorsi da una nave italiana che ci ha procurato i salvagenti e i primi aiuti. Ero terrorizzato, non capivo neppure dove fossimo scesi. Siamo rimasti poi per tre giorni sulla nave italiana dove ci hanno identificato e sottoposti a visita medica.

Appena sbarcati, siamo stati smistati e fatti salire sui pullman per Torino. Ultima tappa Pettinengo.

Sono passato da una vita di morte ad una vita vera dove ho finalmente assaporato la LIBERTA’, IL DIRITTO, LA GIUSTIZIA e la PACE.

La maggior parte della gente di Pettinengo ci ha accolti con simpatia. I nostri responsabili si sono occupati di noi. Molti volontari ci hanno aiutato nelle necessità. Abbiamo imparato l’italiano. Ci siamo abituati a mettere le scarpe, cosa impensabile per noi.

Ora la mia difficoltà, come quella dei miei amici, è non poter avere dei documenti e lavorare.
Dopo questa esperienza di vita quello che mi porterò dentro per sempre sarà il buon cuore di tutti e l’amore che ho ricevuto qui in Italia.

(Boubou)

OGNI PADRE DESIDERA CHE I PROPRI FIGLI SI VOGLIANO BENE

È  vero, l’Italia non può accogliere tutta l’Africa.
L’Italia non può farsi carico di tutti gli immigrati.
Tutti i Paesi devono fare la propria parte, tutti gli uomini del mondo sono chiamati a fare la propria parte.
E noi oggi l’abbiamo fatto.
Noi, nel nostro piccolo, abbiamo cercato di trasformare l’accoglienza dei profughi in conoscenza, integrazione e condivisione.
Abbiamo aperto le nostre case a una quindicina di amici africani , li abbiamo invitati a pranzo, per ascoltarli, per stare insieme 
superando le differenze che ci dividono.

Poi nel pomeriggio: tutti in Burcina a passeggiare e quella pioggia che non è arrivata è stato un regalo di Dio che sembrava che ci dicesse: FIGLI MIEI, SONO CONTENTO PERCHE’ VI VEDO FINALMENTE CAMMINARE INSIEME COME VERI FRATELLI SORRIDENTI E FELICI

senza litigi
senza discriminazioni
senza egoismo
senza arroganza
senza odio
solo AMORE……

(Sonia)

Ringraziamo Boubou e Sonia per la loro condivisione, che ci aiuta a comprendere quanto la speranza del fratello passi anche attraverso di noi…!

Giulia Sossi

 

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