La Tour Eiffel è illuminata e incisa dalla proiezione di 2 stelle sulla sua facciata, simbolo della Francia di Dechamps che domenica è diventata il 21°campione del mondo nella storia del calcio per nazioni.
Sì il calcio, quello sport tanto affascinante, produttore di emozioni, patriottismo, competizione, orgoglio, senso di appartenenza, stupore, che genera grida di vittoria o pianti di sconfitta, non è solo un gioco, soprattutto quando si parla di “mondiale”.
Ogni 4 anni possiamo assistere a un grande spettacolo, pieno di emozione irrefrenabile quando la palla si insacca nella rete di una porta e la tua gente urla fino a non sentirsi in gola le corde vocali perché sta succedendo davvero! Il tuo paese sta scrivendo una pagina della sua storia e tutti, tutti possono annullare i loro problemi per 90 minuti, cristallizzando il tempo in quella partita unica, che non si ripeterà mai più. E poi c’è tanta multiculturalità, espressa in mille modi che si manifestano dentro e fuori gli stadi.
Sono argentino e per il mio paese il calcio non è sport, è un sentimento che un popolo intero sente sulla pelle e che identifica col carattere di una squadra il carattere di una nazione! Ovviamente posso esultare poco, data l’eliminazione dell’Argentina agli ottavi… ma è stato proprio questo, assistere al crollo dei giganti uno dopo l’altro, che mi ha aperto altri occhi per vedere tutto quello che c’è oltre un semplice gioco con la palla e 22 uomini.
Quello che le telecamere hanno potuto catturare sugli spalti, sulle piazze, nelle voci dal respiro infranto dei giocatori intervistati, esprime al meglio quello che voglio dire.
Il mondiale di calcio raggruppa da sempre tutto il pianeta, tutta la Terra nello stesso posto ed emoziona giorno dopo giorno e vorrei avere l’onore di potervelo raccontare; quello di Russia 2018 in modo particolare.
È stato un mondiale che ci ha sorpresi ripetutamente, ci ha trasportati in una realtà imprevedibile, dove nulla è stato scontato, dove non sono state le grandi vittorie previste a riempire i nostri occhi di emozione, dove chi pensavamo arrivasse alla fine non ha superato il primo giro.
È stato il mondiale dell’imprevedibile, così come imprevedibile è la nostra vita, quella magnifica vita umana che non si può controllare, che non mostra in anticipo le sue mosse, che qualunque calcolo tu faccia lei sa come spiazzarti, che non si ferma davanti a muri invalicabili, che scorre testarda e ambiziosa tra gli argini della tua esistenza.
E questo mondiale è stato icona della bellezza più grande che abbiamo: la fragilità.
Tante volte la fragilità la nascondo perché ho vergogna a mostrarmi debole e per ottenere risultati devo cercare di essere il migliore, il più forte e con idee ben precise; la fragilità la sento scorrere nelle mie vene tutti i giorni, fa parte di me e sto imparando a diventarle amico.
E allora i miei occhi in questo mese si sono commossi quando hanno visto la Germania campione del mondo essere eliminata al primo girone dalla Corea del Sud; quando ho urlato la mia disperazione in quel rigore sbagliato da Messi, percependo tutta la sua frustrazione, tutto il dolore di non riuscire a portare a casa quella coppa che è stato il tuo intimo sogno fin da bambino, quasi fosse una maledizione davanti alla quale cadi, anche questa volta.
E poi l’eliminazione della Spagna che non ha concretizzato e del Brasile che non c’ha creduto; il desiderio spezzato di un’Inghilterra che cantava “Football is coming home” nelle strade perché ci sperava a riportare il calcio nella sua patria d’origine. Eppure, niente.
Questo mondiale è sembrato veramente svelare tutta l’umanità che di solito si cela dietro quei volti, quei trofei, quelle rincorse ad incidere il tuo nome nella storia.
Allenatori che hanno lasciato la loro nazionale pochi giorni prima di iniziare (come Lopetegui esonerato due giorni prima) o che sono caduti in balìa dei loro disastri e provocato anarchia (come Sampaoli), e qualche volta grandi campioni che nonostante la loro qualità hanno ceduto in qualche simulazione di troppo.
Infortuni capitati sul più bello, come a Cavani o James Rodriguez, dimostrando che non riusciamo a dare più di quello che possiamo e che a volte è giusto accettarlo, ciascuno coi suoi limiti, mentali e fisici; anche quando si parla di titani come Cristiano Ronaldo, che con quel pizzetto fatto crescere dimostra ancora una volta la sua ossessione maniacale verso il suo rivale di sempre.
Il dolore della sconfitta ti trapana le ossa, ti fa rimanere sveglio la notte perché sai del tuo sogno infranto e che a condividerlo con te c’è tutto un popolo che ci credeva fino a qualche minuto prima.
Questo è parte della bellezza del calcio, che non sai mai come finisce, che ti stupisce con i suoi risultati, che ti coinvolge come se fossi tu a giocare sul campo. E quella empatia coi suoi protagonisti la senti. È un bellissimo parallelismo con la vita quotidiana, fatta di cadute, di errori, di cose inspiegabili e difficili da spiegare a te stesso, eppure tutto succede.
S. Paolo ai Corinzi dice che “abbiamo un tesoro in vasi di creta” e mi piace affiancarlo a questi mondiali, che di grandi campioni rivestiti di fragilità ne ha visti parecchi. Dentro tutto questo frastuono di amarezza e sorpresa c’è stato un mondo in cui sacro e profano si sono mischiati: sono state le preghiere a mani aperte verso il cielo di Momo Salah e di Pogba, con le dichiarazioni di Messi post-qualificazione che riconosce la presenza di Dio in questo gioco, o quel famoso rosario che l’allenatore della Croazia Dalic ha tenuto in tasca, stretto nella mano in ogni partita.
Forse il calcio così profano non è, forse quella profanità gliela diamo noi quando pensiamo si tratti solo di uno sport per eletti o tifiamo senza rispetto per quella maglietta che rappresenta anche la nostra cultura.
Forse la sacralità del calcio sta nel poter ridare vita a gente che non ci crede più, nel dare emozione, sogno e aspettative, nel ridare speranze, nel poterti rendere partecipe di quello che succede da protagonista nonostante tutto; insomma, come fa un po’ Dio con la vita di ciascuno di noi.
E come c’è stato spazio per la fragilità di questi esseri umani, c’è stato spazio per la loro umana imprevedibilità. I miei occhi hanno visto il coraggio del Messico farsi strada in silenzio; la tenacia di un Giappone guerriero che non ha mai mollato fino all’ultimo secondo; il meraviglioso spirito di squadra e sacrificio dell’Islanda, signora di umiltà e di rispetto; la forza e collaborazione di squadra del Belgio, che non si è lasciato intrappolare dagli storici problemi politici nello scontro coi francesi ma ha continuato ad incantare in tutto il torneo; la sfrontatezza dei giovani che si sono fatti strada nella squadra inglese e forse ancora di più nella Francia; e soprattutto quell’orgoglio croato di cui sono un po’ invidioso, che ha fatto ballare e cantare una nazione di 4 milioni di abitanti per aver raggiunto il più grande risultato calcistico della sua storia, agitando bandiere davanti ai pullman con la scritta “small country, big dream”.
Questo è il calcio, ma questa è la vita, è la nostra vita.
E mi perdonerete se mi emoziono e non trattengo la gioia pensando a quelle meravigliose donne iraniane che hanno potuto tifare senza limiti religiosi, mostrando finalmente tutta la loro bellezza, a quella disperata bambina svedese consolata dalla mamma che le spiega che la vita è fatta di battaglie perse e da queste si impara sempre; al ballo di squadra senegalese fatto dai giocatori durante il riscaldamento; a quei 30.000 tifosi argentini che nonostante la delusione hanno invaso la strada sotto l’albergo della squadra per dire al mondo che erano orgogliosi di essere lì nonostante tutto; ad una Francia campione del mondo ma anche campione di multirazialità nella sua rosa di giocatori.
Questo mondiale allora può essere ricordato come “il più bello di sempre” come ha detto il presidente FIFA Infantino? Non lo so.
So soltanto che mi fa esultare, mi fa applaudire a questo sport meraviglioso, che non nasconde le sue imperfezioni e che si svela come metafora della vita, che non si ferma neanche quando si tratta di storie impossibili, come Mbappè cresciuto nella banlieu di Bondy e che ti ricorda che non importa da dove vieni se hai un sogno da realizzare, o come Modric che da bambino scappava dalla guerra con la famiglia e poteva giocare col pallone solo nei centri per sfollati, o come Lio Messi che per la sua carenza di somatotropina (volgarmente detto “ormone della crescita”) non avrebbe mai potuto giocare a calcio.
Uno sport unico, che infuoca tutti con passione, che conquista il mondo inarrestabile, che non si ferma neanche quando la tua malattia si chiama sindrome di Guillain-Barrè, e forse è proprio questa l’immagine più potente ed emozionante del mondiale, Tabarez che continua ad allenare la sua Uruguay a bordo campo, con la stampella.
È sempre tradizione che i giocatori, ad inizio partita, entrino in campo con un bambino per mano. Ciascuno con il proprio bambino canta l’inno nazionale.
Questi bambini non vengono mai ricordati più di tanto, ma sono un simbolo, a ricordarci che nonostante tutto, nel bene e nel male, nella vittoria o nella sconfitta, in fondo, il calcio è solo un gioco.
Un fantastico gioco, visto così, con altri occhi.
David Martinez