Evangelizzazione
I gemelli di Tommaso
Ho da sempre guardato con un occhio interessato la figura di San Tommaso fin dai tempi universitari quando, lontano dalla fede, reputavo potesse esistere ogni cosa che venisse realmente dimostrata tale, applicando alla lettera il metodo empirico (ragion per cui avevo escluso Dio dalla mia vita)
Anche ora che ho una diversa visione della vita, il comportamento di questo apostolo, raccontato nel brano di chiusura del Vangelo di Giovanni, continua ad interrogarmi: Tommaso chiamato Didimo… che in greco significa gemello.
Tommaso chiamato il gemello! Siamo tutti gemelli della storia di Tommaso che, a mio avviso, non è quel personaggio negativo che l’immaginario collettivo ha ormai etichettato, soprattutto dopo l’incontro col Signore Gesù.
Gli apostoli sono rinchiusi in casa e pieni di paura: sono uomini atterriti che non sarebbero usciti allo scoperto a predicare se non avessero avuto un incontro reale con il Signore Gesù.
Tommaso non è lì con loro al sicuro, ma è altrove rischiando di esser riconosciuto dai Giudei: forse non vuole più avere a che fare con quella comunità, ma di fatto non cede alla paura.
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Si perde, è vero, la prima apparizione di Gesù, ma credo che se la siano persa nella reale essenza anche i presenti nel Cenacolo; quando gli apostoli dicono a Tommaso “abbiamo visto il Signore”, lui non ci crede, o meglio non crede che l’esperienza fatta sia significativa, in quanto essi mancano di convinzione. E la volta successiva, dopo aver visto il Signore Risorto, sono ancora barricati ed immobilizzati dalla paura!
L’assenza di Tommaso dona una luce diversa anche all’esperienza molto umana della fatica del credere, oltre a rimarcare quanto sia fondamentale incontrare coi fatti Gesù; siamo chiamati ad essere gemelli di Tommaso eclamando: “Mio Signore e mio Dio”
Costoro hanno veramente voltato pagina, vivendo una particolare libertà: hanno consegnato a Dio il loro desiderio di essere felici e perciò non si preoccupano più troppo di se stessi.
Sanno che Dio non li deluderà, mai.
Sono liberi dalla paura: si espongono a tutti i rischi che la missione comporta, non per ingenuità o presunzione, ma per obbedienza. Sono liberi dalla ricerca del consenso, sono liberi dai giudizi altrui: ascoltano tutti e sanno che da tutti devono imparare, ma il criterio del loro agire non è la popolarità o l’approvazione del mondo.
Sono liberi anche dall’ossessione di verificare i risultati. Si impegnano con tutte le forze, si appassionano alle imprese che li coinvolgono, ma sanno di essere solo operai mandati a seminare.
Hanno uno scopo non certo figlio dell’ambizione, non sono nutriti dal desiderio di una carriera, dalla presunzione di un protagonismo, ma è piuttosto l’obbedienza alla missione.
E portano a spasso un sorriso in cui indovini una gioia che non viene da fortunate coincidenze o dall’assenza di problemi, ma da un’inesplorabile profondità, come una sorgente che non cessa mai di alimentare l’esultanza. Ma contemporaneamente lasciano ampio spazio alla compassione, perché non c’è soffrire che li lasci indifferenti; è il sospiro del compimento perché non c’è giorno della vita in cui non invochino “venga il tuo regno”.
Sia chiaro, compassione, non tristezza figlia delle disperazione!
Quest’ultima ci rende nervosi al mattino sulle strade, intrattabili con chi pensiamo ci tolga il diritto di esistere, è questa che autorizza i nostri giovani a non guardare più con passione il futuro e ha tolto dalla loro mente ogni idea di rivoluzione oltre che dare la delega agli adulti di disinteressarsi dell’educazione. È perché camminiamo al passo della disperazione che non sentiamo più la voglia di indignarci e di prendere per mano i piccoli e con loro anticipare la logica del Regno.
Giovanni dice che questi eventi su Gesù e in particolare i segni da Lui compiuti sono stati scritti perché alimentino la fede, e perché in questa fede troviamo vita.
E allora inneggiamo alla vita ritrovata esclamando all’unisono: “Mio Signore e mio Dio”
Amen!
grazie raf. aggiungo solo che tommaso ha visto il Signore quando era in comunita’. la prima volta non c’era. io l’ho visto come un invito a far parte della chiesa, la fede e’ un cammino che non si fa da soli.
un abbraccio fraterno
Concordo in pieno!
Non siamo fatti per le ascese in solitario, ma per scalare le montagne in cordata!
Riporto uno stralcio dal blog di Paolo Curtaz, originale e pregno di significato:
“Tu Pietro? Tu Andrea?… e tu Giacomo? Voi mi dite che lui è vivo?
Siamo scappati tutti, come conigli; siamo stati deboli, non abbiamo creduto!
Eppure, lui ce l’aveva detto, ci aveva avvisati. Lo sapevamo che poteva finire così, e non gli siamo stati vicini, non ne siamo stati capaci. Ora, proprio voi, venite a dirmi di averlo visto, vivo? No, non è possibile… come faccio a credervi?”
Sai, Tommaso: hai ragione.
Incontro spesso cristiani come te, feriti dalla pessima testimonianza di noi discepoli, scandalizzati dal baratro che mettiamo tra la nostra fede e la nostra vita, increduli a causa della nostra piccolezza. Noi, discepoli del Maestro, che invece di essere trasparenza del Risorto, diventiamo filtro, e facciamo emergere le nostre fragilità, piuttosto che la luce luminosa che ci ha avvolti e cambiati.
Quanti ne conosco come te, Tommaso! Brava gente scossa dall’atteggiamento di un prete despota, giovani turbati dalle nostre comunità fiacche, cercatori di Dio scoraggiati dal nostro poco entusiasmo.
Ma – e questo è stupefacente – Giovanni ci dice che otto giorni dopo eri ancora con loro.
Non li hai mollati come a volte vedo fare, non ti sei sentito superiore, migliore, a parte. Hai voluto condividere la tua amarezza con loro, non hai pensato di fare una Chiesa alternativa, ma come frate Francesco poverello farà, hai voluto convertire la Chiesa dal di dentro, senza uscirne.
Chi ha orecchie per intendere…