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Chi ha paura della fragilità?

Viviamo nella società dell’efficienza e della perfezione. O almeno così sembra. Dal primo trillo di sveglia fino a quando appoggiamo la testa al cuscino, la sera, siamo sotto assedio. Messaggi espliciti – e molto più messaggi impliciti – ci parlano di ambiziosi obiettivi da raggiungere, spesso ad ogni costo, e/o di standards faticosamente raggiunti da mantenere. I social, al riguardo, sono una buona cartina tornasole. “Questa foto ha riscosso pochi likes su Instagram, devo assolutamente recuperare, sto perdendo popolarità!”.


“Il numero di followers non cresce nonostante il mio impegno…Google, come posso fare?”.

Volti sorridenti, corpi atletici, cibi fotografati prima che mangiati, paesaggi mozzafiato. Bacheche di Instagram che si riempiono di aspiranti influencers ritratti sotto ogni possibile angolazione. La ricerca dell’originalità a tutti costi.

Ogni dettaglio sui social parla la lingua dell’idealità, di una perfezione formale che ci dovrebbe rendere persone felici e realizzate. Peccato che spesso la realtà sia tutta un’altra cosa e che la sofferenza psicologica sia uno dei tratti tipici della società del Terzo Millennio.

Dai dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) emerge infatti che il peso globale dei disturbi mentali continua a crescere, con un conseguente impatto sulla salute e sui principali aspetti sociali, umani ed economici in tutti i paesi del mondo.

Se nel secolo scorso il male dell’anima più diffuso era la nevrosi, che rappresenta di fondo un conflitto fra il desiderio e la norma da infrangere per soddisfare quel desiderio, oggi a primeggiare nella lista dei disturbi mentali è la depressione, con 300 milioni di persone colpite al mondo. Per fare un paragone il disturbo affettivo bipolare e la schizofrenia colpiscono rispettivamente circa 60 milioni e 23 milioni di persone a livello globale, mentre la demenza conta 50 milioni di vittime secondo i dati dell’OMS.


Il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti ritiene che la depressione nasca dal fatto che nella società odierna tutto sembra possibile e l’individuo in questa società perfetta, efficiente, tecnologica ed evoluta soffre di un “senso di insufficienza e di inadeguatezza” dovuti alla sua “ansia” di non poter realizzare se stesso e i suoi obiettivi.

Infatti, in una società dove trionfa l’arrivismo e la competizione spietata spesso non si riesce a compiere ciò che gli altri si aspettano e da questo nasce il senso di inadeguatezza che porta alla depressione.

Se inseriamo quanto emerso nel quadro più ampio di un individualismo diffuso e di una mentalità di mercato onnipervasiva che strumentalizza le relazioni, il risultato non è tanto confortante. Siamo una società che non vede davanti a sé un futuro, una società che, in fondo in fondo, non desidera vivere.


Basti pensare alla continua caduta libera del tasso di natalità nei paesi sviluppati, alla mentalità eugenetica che in paesi come l’Islanda ha portato ad una pratica così diffusa dell’aborto selettivo dei bimbi con la sindrome di Down da averne dichiarato l’”estinzione”, oppure alla pratica eutanasica per quelle vite apparentemente “in-utili”, che non producono nessun “utile”, ma che anzi diventano un costo sociale per nulla trascurabile.

A questo punto non possiamo non farci alcune domande. Quanto ci fa paura la nostra fragilità? E quella di chi ci sta attorno? Di più ancora: perché ci fa così paura la fragilità?

A mio avviso la risposta va cercata a livello del tessuto relazionale in cui siamo immersi e alla grande sfiducia che si respira al riguardo. La cultura dello scarto ha avvelenato le nostre menti e i nostri cuori: il terrore ci assale al pensiero di concepirci bisognosi, soprattutto se questo vuol dire affidarsi a relazioni estremamente fragili, precarie e spesso interessate.

Ora sto bene, ma quando mi ammalerò? Chi si prenderà cura di me quando sarò anziano? I miei figli o dei robots? La domanda è tutt’altro che ironica. Recentemente in Giappone sono stati sviluppati dei robots per la cosiddetta “elderly care”, automi in grado di interagire e dare affetto agli ospiti di diverse case di soggiorno.

Ma, possiamo ancora parlare di progresso quando un certo tipo di innovazione tecnologica ci sta rendendo individui sempre più isolati, sempre più soli, incapaci di relazioni umane autentiche? Possiamo concepirci membri di una società davvero “evoluta” quando le scelte che vengo prese, soprattutto in campo bioetico, troppo spesso muovono da una visione individualista dell’uomo, prescindendo dalla trama di relazioni che alimenta e sostiene la persona umana, dal bene comune?

Recentemente papa Francesco è intervenuto in un TED Talk per lanciare un appello alla nostra comunità globale:


“Come sarebbe bello se alla crescita delle innovazioni scientifiche e tecnologiche corrispondesse anche una sempre maggiore equità e inclusione sociale! Come sarebbe bello se, mentre scopriamo nuovi pianeti lontani, riscoprissimo i bisogni del fratello e della sorella che mi orbitano attorno! Come sarebbe bello che la fraternità, questa parola così bella e a volte scomoda, non si riducesse solo ad assistenza sociale, ma diventasse atteggiamento di fondo nelle scelte a livello politico, economico, scientifico, nei rapporti tra le persone, tra i popoli e i Paesi!”.

Posso correre il rischio di essere fragile, se a prendersi cura di me c’è un fratello che mi vuole bene, per il quale sono importante. Posso rinunciare alla ricerca affannosa della perfezione se è l’amore a bagnare le relazioni che vivo. Utopia? No, si chiama Speranza.

Don Diego Puricelli

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