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Quella casa che cercavo…

Tutto ha il suo momento e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo (Qoèlet 3,1). 

C’è un tempo di Covid-19 e un tempo di salute, un tempo di paura e un tempo di fiducia. Un tempo su cui fare progetti e un tempo di giudizio, un tempo di amicizie e un tempo di solitudine. 

C’è questo momento che ha il suo tempo di purificazione, di scelta, di testimonianza. Un tempo fortemente presente, qui ed ora, che mi porta ad accogliere tutti gli opposti che sento: paura e fiducia, angoscia e pace, disperazione e speranza, la neve sui monti e i fiori che sbocciano sugli alberi, il freddo e il sole, la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. 

Vivo, fin dall’inizio della pandemia, una forte perdita, un distacco, come se mi fosse stato portato via qualcosa di bello che a fatica avevo tentato di costruire. Oltre all’impegno missionario legato alla formazione, ciò che mi manca ora è la relazione con le persone del mio gruppo, con cui ho condiviso per diversi anni. Qualche, poche ma preziose, relazioni alla pari di amicizia e stima. 

La nostra struttura umana ho bisogno di schemi comportamentali, di abitudini, di un luogo sicuro. A volte però i fatti della vita ti tolgono all’improvviso quelle strutture che tu pensavi solide. 

Di fronte a questo sconvolgimento interiore ho percepito una sfida: la possibilità cioè di uscire ancora una volta dalla mia zona comfort (seppur sana) per scoprire quali risorse positive mettere in campo in una situazione apparentemente sfavorevole.

Avevo chiaro interiormente, fin da subito, tramite la preghiera, il brano del Vangelo in cui Gesù dice:

Distruggete questo tempio e Io in tre giorni lo farò risorgere (Gv 2,13-22).

E mi dicevo: Sì, il tempio è stato distrutto. Anche la sicurezza data dai riti e dalla prassi religiosa apparentemente ci è stata tolta. Tutto ciò che abbiamo costruito come abitudine e appartenenza al popolo di Dio, improvvisamente è stato reso proibito. Con il passare dei giorni poi, in modo sempre più chiaro, sentivo risuonare nel cuore la parola che Gesù rivolge alla Samaritana (Gv 4,23) : Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità: così infatti Il Padre vuole che siano quelli che lo adorano

Distruggere il tempio, quindi, in qualche modo, era necessario per poter entrare nel terzo giorno, quello della risurrezione. Quella che sembrava una perdita è diventata quindi una nuova consapevolezza: il vero culto, il culto che Gesù, come Maestro interiore, suscita dentro di noi, è una dimensione intima che ha a che fare con me e Dio, riconosciuto, nello Spirito di Gesù, come Padre.

Il luogo sicuro, quella casa che cercavo in tutti i modi, è dentro di me.

Dio, come il padre prodigo della parabola del Vangelo (Lc 15,11), attende continuamente il mio ritorno a casa per poter fare festa con me. E così, cresce in me la fame del pane della casa del Padre e, ogni volta che ritorno al luogo sicuro, c’è un posto a tavola preparato per me ed è la festa dell’incontro. 

Ma proprio perché il culto eucaristico ha il suo fondamento nella interiorità dell’essere (che va costantemente alimentato dal rito), il nemico della vita farà di tutto per farci restare distratti e impegnati nelle “cose di fuori”, per farci scoraggiare, mostrandoci la nostra scintilla divina interiore come immeritevole, sporca, distante. 

Scopro quindi in questo cammino, che coincide proprio con il tempo del virus, che il campo di battaglia, il luogo del combattimento, il tempo della missione è dentro di me, che lì e solo lì posso vivere i conflitti e che è da dentro che poi leggo la realtà amplificando o semplificando alcuni aspetti che hanno a che fare con me. 

Non vediamo le cose come sono; vediamo le cose come siamo. 

Svalutazione, ingiustizia, negazione, isolamento sono le mie accuse interiori; e solo sistemando i miei nemici interiori, solo dialogando con loro fino al punto da amare questo “mio” nemico, posso migliorare il mondo. 

Mi accompagna in questo percorso un libro su Etty Hillesum, “Dio Matura” di Fratel Micheal Davide. Assimilo il cammino eucaristico di questa donna, che non odia i carnefici nazisti, che ama e incoraggia chiunque alla scoperta della propria vita interiore, che non si sente migliore degli altri e per questo, pur potendo fuggire, prende parte alla sorte tragica del suo popolo, che non subisce lo sterminio ma decide lei di diventare pane spezzato per questi tanti uomini così affamati. 

Faccio quindi esperienza, aiutato da chi mi segue, che solo aiutando il povero che è in me posso salvare (migliorare) il mondo. Solo imparando ad amarmi, come Gesù mi ha amato, posso imparare ad amare i fratelli. Solo passando dalla via umile e scomoda dell’amore per me stesso, solo accogliendo lo straniero che mi abita, solo diventando amico dei miei contrasti interiori posso diventare uomo. Solidale con tutta l’umanità, capace di solidarietà intima e profonda anche con chi è lontano, capace di sentire e compatire il dolore dell’altro, capace di non essere indifferente di chi mi passa accanto perché coinvolto in me stesso e in ogni fratello e in Dio. 

Nei giorni precedenti la Pasqua, guardando fuori dalla finestra, vedevo le montagne ancora innevate, i fiori chiari del mandorlo caduti a terra che coloravano l’erba verde, un giovane ramo di ciliegio in fiore. 

Era la carezza pasquale che la natura mi regalava: un  fiore che cade, un fiore che nasce. 

Tutto ha il suo momento e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.

Don Enrico Danese

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