Domenica scorsa si è concluso il famoso Tour de France, lo spettacolo di ciclismo più famoso al mondo, che non si è fermato neanche in questo periodo di Covid così difficile.
176 atleti, 21 tappe, 3.484,2 km… un viaggio lunghissimo e bellissimo alla scoperta della Francia con l’arrivo a Parigi capitale, sugli Champs-Élysées .
Un Tour emozionante, speciale dalla prima all’ultima pedalata, all’insegna dei giovani, alla scoperta e alla conferma di “futuri” campioni, pieno di gioie, grida e soddisfazioni, pianti, cadute, ferite, ritiri e delusioni.
Abbiamo visto trionfare Tadej Pogacar, detto “Pikachu”.
Quel pomeriggio avevo le lacrime agli occhi, quando l’ho visto piangere tra le braccia dei suoi allenatori, meccanici e massaggiatori nel momento in cui ha capito quello che aveva fatto.
Posso solo immaginare le sue emozioni di gioia, felicità, soddisfazione, gratificazione ed incredulità, per essere riuscito a fare un impresa del genere, per essere il più giovane a vincere un Tour. Posso solo immaginare quanto sacrificio, quanto sforzo di gambe, quanto cuore e quanta testa è riuscito a gestire ogni giorno: l’unico che ha avuto il coraggio di attaccare tappa dopo tappa, salita dopo salita l’indiscussa maglia gialla, che è riuscito a regalarci il capolavoro di una sfida tra il più giovane e sfrontato contro il più esperto e determinato, che è riuscito a vincere contro ogni pronostico.
Abbiamo visto all’opera i grandi Team di atleti, meccanici, massaggiatori, direttori sportivi spalleggiarsi sempre, scoprendo che non si tratta solo di squadre sportive ma di vere e proprie famiglieche esultano insieme nei successi e piangono insieme nelle sconfitte.
Abbiamo visto i ritiri inaspettati dei grandi, i favoriti che hanno dovuto abbandonare sogni di classifica o di podio.
Abbiamo visto anche cadute, quelle durante il diluvio su Nizza, che mi hanno riportato alle mie cadute. A quella famosa caduta 5 anni fa, l’ultima, perché quando sono riuscita a risalire in sella ho sentito che c’era qualcosa che non andava… Il mio ginocchio aveva preso una botta più forte del previsto e quella fu la mia ultima gara a livello agonistico, a 18 anni.
Il ciclismo per me è quella piccola scuola di vita
che ti insegna che quando cadi devi rialzarti subito e ripartire, risalire in sella più forte di prima; che quando vieni superato devi rincorrere e recuperare chi ti precede accettando la sfida.
Abbiamo visto la bellissima scena, che rimarrà nella storia, dei due compagni di squadra Kwiatkowski e Carapaz, giungere insieme abbracciati sul traguardo, senza preoccuparsi di chi avrebbe vinto,
Abbiamo visto velocisti, scalatori e cronoman alle prese con le loro specialità e con i loro fallimenti, perché nel ciclismo è naturale vivere di questo: iniziare bene, essere superati, recuperare, essere superati di nuovo… Sono delle emozioni che conosco bene e che mi riportano alla mente tanti ricordi come tutte le mie volate, la paura di sbagliare traiettoria, la paura di cadere, di perdere.
Il ciclismo è uno sport unico perché offre uno speciale contatto col pubblico: durante la gara i tifosi sono a qualche metro o addirittura qualche centimetro dai corridori e possono sentire il loro affanno, partecipare anche loro alla gara e accompagnare gli atleti lungo la corsa, incoraggiati e spinti da questa presenza nelle piazze e poi nelle strade e poi nei pendii delle montagne.
Il pubblico è il ciclismo e quest’anno è stato anche più diverso dal solito per le misure anti-covid, ma nonostante tutto abbiamo visto un grande spettacolo.
Il ciclismo mi ha insegnato che è importante essere umani.
Mi ha insegnato a riconoscere le mie difficoltà, fragilità e limiti, per imparare ad accettare le sconfitte e metabolizzare le delusioni, ma soprattutto a non mollare mai ed essere pronta a lottare sempre.
Con la sfrontatezza di un giovane che non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.
Valentina Talevi