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E’ la de-umanizzazione dell’altro a legittimare la violenza

intervista al professor Mario Pollo, antropologo dell'educazione, già docente di sociologia e pedagogia all'università Lumsa di Roma

Professore, come spiegarsi questa vile e insensata ferocia contro un ragazzino inerme?


Dentro di noi c’è un residuo arcaico di violenza legato al fatto che l’uomo nella preistoria è sopravvissuto per molti anni cacciando. Il divieto di uccidere non è nel nostro istinto, ma si è affermato sul piano della cultura (e poi della legge); tuttavia oggi nella cultura sociale manca, di fatto, una solida educazione al rifiuto della violenza. Stiamo vivendo un’epoca priva di una visione etica forte, condivisa da tutti i membri della comunità civile. Nella società complessa si formano sottogruppi che elaborano principi non conformi a quelli seguiti dalla maggioranza delle persone, e l’educazione spesso non è più in grado di incanalare gli impulsi degli individui all’interno di modelli di comportamento e stili di vita che impediscano la prevaricazione violenta degli altri per affermare se stessi.

Coltivare la violenza per la violenza: questo facevano due dei quattro indagati con precedenti per spaccio e lesioni, conosciuti in paese per i loro gesti sopra le righe. Tutti sapevano? Che cosa è mancato?


E’ la prova dell’assenza di una rete sociale, della frammentazione odierna per cui ogni individuo è riferimento solo a se stesso o al massimo a piccole enclave che sviluppano vere e proprie sottoculture, mentre è venuto meno il senso della responsabilità collettiva. Oggi, chi ha una visione diversa ritiene di non poter/dover proporre la propria concezione sull’essere umano, in nome di una presunta pluralità di libertà secondo la quale ogni idea, opinione, visione del mondo ha lo stesso valore. Una sorta di mucillagine acritica che omogenizza e mette tutto sullo stesso piano, cosicché comportamenti un tempo giudicati trasgressivi e devianti vengono in qualche modo “accettati”. Da giovane ho praticato l’aikidō, arte marziale giapponese basata sulla difesa che consiste nel rivolgere contro l’avversario la sua stessa forza. Eravamo tenuti al giuramento di non esercitare mai violenza nei confronti di altri e se qualcuno trasgrediva veniva sanzionato e cacciato dal gruppo. Questa disciplina inoltre, legata ad un’antica tradizione culturale, ci insegnava a mantenere il controllo di sé anche quando subivamo aggressioni. Le arti marziali praticate da questi giovani di Colleferro (Mma, ndr) sembrano invece basate esclusivamente sulla violenza e sulla prevaricazione degli altri per esercitare il dominio nel proprio ambito sociale.

La nostra civiltà sta regredendo verso la barbarie?


Beh, stiamo assistendo ad un’implosione regressiva. Spero si tratti semplicemente del segno della crisi legata al passaggio dalla modernità ad una nuova era che non ha ancora un nome, non sappiamo come sarà, ma certamente sarà distante dalla modernità quanto la modernità è stata distante dalle epoche precedenti. Ogni crisi può produrre nelle persone forme di regressione, e in alcuni casi scatenare ansia persecutoria che fa vedere gli altri come potenziali aggressori di fronte ai quali l’uso della violenza sembra l’unico modo per tutelarsi e affermarsi. Ma il problema è anche un altro.

Quale?

Nella cultura contemporanea non vengono più veicolati valori trascendenti.

Si parla solo di obiettivi e mete da raggiungere: successo, benessere; si ragiona unicamente in termini di utilità immediata, dimenticando che la vita deve avere, se non una fede, almeno un aggancio a ideali alti per i quali essere disponibili a sacrificare anche aspetti gratificanti della propria vita. E’ venuto meno il profondo valore della dignità di ogni essere umano – lo dimostra anche la gestione della questione migranti -, come se chi è diverso da me non avesse la mia stessa dignità. E questi aggressori, che mascherano la propria debolezza con la forza bruta, non sono in grado di comprendere la gravità delle azioni che stanno compiendo, né di percepire la sofferenza che il loro agire causa nella vittima.

Nessuna empatia, dunque? Come se stessero giocando a una sorta di Mortal Kombat?


Come in un videogame, le persone sono per loro involucri vuoti, simulacri. Non avvertono il mistero e la complessità della vita che percorre le loro vittime, ridotte quasi a personaggi “virtuali”. Avendo smarrito la capacità di conoscere se stessi si sono svuotati, per primi, di umanità e si riconoscono solo dalla loro immagine, dal fisico tatuato e dai muscoli pompati.

E questa de-umanizzazione trasferita nella vita reale ‘legittima’ in qualche modo la violenza.

Come si può intervenire?


Educando alla relazione con gli altri e con se stessi, anche attraverso il lavoro di gruppo. Ho insegnato per più di 30 anni animazione culturale formando un migliaio di persone al lavoro sul gruppo, finalizzato all’aiuto a costruire relazioni autentiche, e a educare al valore profondo della vita umana in tutta la sua ricchezza.

Questi processi andrebbero avviati in tenera età in famiglia? Dopo, non può essere tardi?


“Noi siamo riusciti a recuperare anche adolescenti e giovani che avevano intrapreso strade sbagliate. Tra i miei allievi ho avuto – ora è mancato perché era sieropositivo – un ex tossicodipendente che aveva commesso reati per procurarsi la droga. Entrato al Ceis di don Picchi, del quale per molti anni, quando c’era ancora don Mario, ho formato gli operatori, è riuscito a ricostruire se stesso e la propria vita, è diventato operatore nella comunità e si è laureato con me alla Lumsa. Dal punto di vista umano questo giovane è una delle più belle persone che io abbia mai conosciuto. Con un passato terribile, ha trasformato in bene il male che aveva vissuto. Lo ammiro per il suo percorso di crescita non solo culturale, ma soprattutto interiore e umana. Questo dimostra che

ogni persona è redimibile e con un lavoro serio può essere aiutata a risalire dall’abisso.

intervista di Giovanna Pasqualin Traversa per Agensir

11 Settembre 2020  

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