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La vita fragile della scuola

I corridoi della scuola superiore sono vuoti. Li percorrono a passo affrettato docenti che devono raggiungere aule deserte da cui collegarsi a distanza con le loro classi e, a passo più lento, vi passeggiano alcuni alunni disabili con i loro insegnanti, anch’essi in cerca di aule e laboratori.

Li percorrono e vi stazionano continue notizie sul virus, incessanti circolari ministeriali e regionali a volte in contrasto, sentimenti contrastanti, da un lato paura del covid, rabbia per una gestione imprevidente, fastidio per le esternazioni demagogiche, confusione, nostalgia della vecchia scuola, avversione e finanche astio per la sua nuova versione digitale (abbasso la DAD!), certo in linea di principio, perché ora come ora è meglio non venire a scuola (viva la DAD!); d’altro canto non muoiono (e circolano) speranza e fiducia, che tutto passi, che anche così è possibile fare scuola, che sia anzi l’occasione di cambiare la didattica, asciugare programmi pletorici, aprirsi al digitale (viva la DAD e pure la DDI!).

I corridoi vuoti sono pieni soprattutto di domande.

La scuola, come molta parte del nostro mondo, non ha accettato fino in fondo la presenza di un male che ne metteva in discussione per sempre la sua normalità. Ha atteso che la bufera passasse per tentare di ricompattare la tradizione con qualche ritocco. Ed ora, come quasi tutto il nostro mondo, è nuda. Come spiegare ad una classe metà in presenza, metà a casa? Come valutare? Si può fare lezione all’aperto? I corsi di recupero a distanza? Servono? E i progetti approvati? Che si fa? Ed è giusto poi che alcuni studenti debbano venire a scuola per far gruppo con i ragazzi che hanno bisogni educativi speciali, come prevede il DPCM? Non dovremmo stare tutti a casa? Domande piccole e domande grandi, anzi giganti ad ogni angolo di corridoio: ad esempio le esigenze d’inclusione sono più importanti della salute ora in questa situazione?

Le risposte sono spesso in lite fra loro, figlie diposizioni personali o di visioni parziali del problema e, complici le continue evoluzioni del contagio e gli atti amministrativi conseguenti, durano lo spazio di pochi giorni, appaiono effimere, mai risolutive. Quella che ingombra realmente gli spazi è la necessità di capirsi, e, prima ancora, di ascoltare in profondità tutte le parti coinvolte. Non si possono più prendere decisioni automatiche, nel semplice rispetto dei ruoli e delle competenze, così come sono inefficaci vecchi metodi, inconsistenti, usi inveterati divenuti norme:

ogni cosa è nuova, ogni cosa riguarda interessi vitali che devono essere ascoltati, tutto è da riscrivere ogni giorno.

E allora la domanda che rimbomba, silenziosa o gridata, nascosta magari in circolari chiarificatrici, negli scambi di opinioni, nei collegi è:

che facciamo?

È l’ammissione della nostra fragilità, non sappiamo più che fare, non sappiamo più cosa è giusto fare, dobbiamo accettare la presenza di un male che ci cambierà. Questa può essere una benedizione. Può essere infatti la domanda che ci rifonda come comunità educante, perché di fronte ad essa non possiamo più evitare due cose:

ricordarci di essere degli educatori e avere una visione comune.

Certamente, per rispondere dobbiamo per forza prenderci seriamente cura di qualcun altro, di chi ha legittimamente paura del virus, come dei ragazzi che rischiano di perdersi se non vengono a scuola, e in particolare di quelli che hanno bisogni educativi speciali, dei differenti problemi dei genitori e delle famiglie, ma anche del personale della scuola, dell’unità del collegio e poi naturalmente della didattica, che sotto questa lente mostra chiaramente ciò che è, un aspetto della crescita integrale dei giovani. Dobbiamo pensare alle persone, rispetto alle quali non ci sono risposte ideologiche che tengano e risolvano.

Dunque non possiamo più dimenticare che il nostro mestiere non è trasmettere informazioni, ma coinvolgersi in relazioni di cura.

Cosa che nessuno può fare da solo: è del tutto evidente non solo che nessuno ha la risposta giusta, ma che nessuno può rispondere da solo. È proprio della fragilità chiedersi reciprocamente: che facciamo? E scoprire che

la forza è nella comunità che condivide una visione comune, un’idea di educazione e di crescita per il proprio territorio.

Ogni atto, specie in questi giorni frenetici, ci definisce e risponde, che vogliamo o no, ad un modello di uomo che tracciamo.

Non è più tempo di essere generici, distratti, egoisti, personalistici, ideologici, demagogici, è tempo di diventare un segno concreto di futuro, dando speranza concreta agli uomini a cui siamo legati, ai giovani che ci sono stati affidati, specie ai più fragili.

Massimo Leone

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