In molti, compresi alcuni membri dell’Academy di Hollywood, sono usciti dalla sala disturbati, dopo aver visto Joker di T. Phillips, Leone d’oro alla 76ͣ mostra d’Arte cinematografica di Venezia, tuttora in programmazione nei cinema italiani dal 3 ottobre.
Il film racconta le origini dell’omonimo personaggio dei fumetti DC Comics, allontanandosi dalle precedenti versioni sulla genesi del supercriminale raccontate nelle storie a fumetti The Killing Joke (1988), L’uomo che ride (2005) e Batman Confidential (2007), coerente in ciò con la celebre battuta del personaggio che in The Killing Joke dichiara: “Se proprio devo avere un passato, preferisco avere più opzioni possibili!”. Joker è unanimemente riconosciuto come uno dei personaggi di fantasia più riusciti di sempre, e campeggia addirittura ai primi posti in speciali classifiche sui più grandi cattivi delle storie a fumetti, 1° in quella redatta dalla rivista ‘Wizard’, 2° secondo IGN, la società di giochi e media di intrattenimento . Anche per questo l’inchiesta sulle origini della sua malvagità si offre come una discesa a precipizio nel male, ben oltre i confini del lato oscuro dell’uomo, con il fascino e l’inquietudine che questo viaggio provoca.
All’ inizio c’è Arthur Fleck, un uomo alienato, attore fallito che sogna di diventare cabarettista come il suo idolo, il presentatore televisivo Murray Franklin, ma che deve guadagnarsi da vivere come pagliaccio, ignorato da tutti e vittima di bulli e violenze. Vive in un appartamento dei bassifondi con la madre anziana, Penny, nella Gotham City del 1981, una città corrotta, ingiusta, degradata, sporca, invasa dai ratti, lacerata da feroci disuguaglianze sociali e carica di rabbia esplosiva, che monta per tutta la durata del film e scoppia nel finale, quando orde di gente mascherata da Joker mettono a ferro e fuoco la città. Questo però è solo lo sfondo, non la stanza in cui il mostro, di cui la rivolta prende il volto, viene allevato, è la cornice dell’inferno, non il suo cuore.
Mentalmente instabile, Arthur soffre anche di una forma rara di incontinenza emotiva, simile alla reale sindrome pseudobulbare, che lo porta a ridere in modo incontrollato difronte a stimoli emozionali esterni, specie in situazioni di tensione. Arthur ride quando non c’è nulla da ridere, quando una madre lo rimprovera di importunare suo figlio, quando scopre un terribile segreto del suo passato, quando lo licenziano. Una risata paradossale,stravolta nella sua natura, eccessiva, inquietante, agghiacciante, vuota. Vuota come l’altro gesto che lo caratterizza sin dall’ inizio, un passo di danza compiaciuto, che ripete ovunque, con il quale sogna di entrare in scena, con il quale entra in scena ospite dello show di Franklin, quando però ormai è già diventato Joker.
Il riso è forse la chiave di tutta la genesi del mostro, attraversa tutto il personaggio e tutto il film. La madre sin da bambino diceva ad Arthur di ‘mettere una faccia felice’, perché ha uno scopo nella vita: ‘portare risate e gioia nel mondo.’ Infatti la risata dovrebbe essere il suo mestiere, quello che vorrebbe fare, il cabarettista, e quello che è costretto a fare, il pagliaccio; invece sin da bambino il protagonista è più che altro oggetto di risate di scherno. C’è un solo momento nel film, in cui il riso è naturale: in una delle citazioni cinematografiche più delicate, Arthur in un cinema guarda alcune scene di ‘Tempi moderni’ (film di e con Charlie Chaplin, ndr) e sorride, forse nell’ unico scampolo di felicità e di autenticità che gli capita in una routine tragica. D’altro lato ‘Smile’, la canzone sul sorriso più famosa della storia del cinema, è parte integrante della colonna sonora del film. Ma sono solo pochi attimi, per tutto il resto del tempo, nell’eccesso di un riso isterico, rimbomba il vuoto. Mancano gli altri. Il riso diventa progressivamente la voce dell’inferno in cui Arthur si trasforma in Joker, la solitudine.
Qualcuno ha detto che la cosa più simile all’inferno sulla Terra è la solitudine. Arthur ne sembra consapevole. Riassume la sua esistenza così, quando è diventato Joker: “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziamo a notarlo”. E in un altro passaggio: “Cosa ottieni se metti insieme un malato di mente solitario con una società che lo abbandona e poi lo tratta come immondizia? Te lo dico io che cosa ottieni: ottieni quel cazzo che ti meriti”.
Invisibilità, abbandono, assenza di relazioni sono le succursali infernali che si aprono in una Gotham che allude ovviamente alle nostre città, ed è in queste che l’animo malato di Arthur si corrompe gradualmente, e mostruosamente. La sua vicenda è una progressiva rescissione di legami. Arthur non diventa Joker quando, aggredito da un gruppo di giovinastri nella metro, li uccide (con la pistola che un suo collega gli aveva dato per difendersi dopo le aggressioni già ricevute instrada), diventa un mostro quando cade l’ultima e praticamente unica relazione della sua vita, quella con la madre. Aveva cercato il padre, si era illuso di avere una donna, gli avevano ‘tagliato’ l’assistente sociale, non aveva mai avuto un pubblico.
Nella solitudine (nel senso dell’isolamento) nascono i mostri. Ce lo insegna Joker, con tanti altri mostri del nostro immaginario, come Frankenstein, come Elephant man. Nell’isolamento mette le radici il male con la sua opera di stravolgimento, dove la commedia diventa tragedia – lo dice Joker, ribaltando i termini: “Ho sempre pensato alla mia vita come ad una tragedia. Adesso vedo che è una commedia.”- , il sorriso del clown diventa ghigno satanico. E come tutte le maschere del male è solo la parodia di un bene.
Massimo Leone