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Raccontami la tua storia e il mio mondo sarà migliore

Avete mai provato la sensazione di vivere un momento particolare, importante, di quelli che lasciano il segno, quando avvengono dei fatti, degli incontri che in qualche misura sono legati tra loro? Ma questo lo si capisce non sul momento; qualche istante dopo. Ore, giorni.

Una settimana fa ero a Cittadella Cielo a realizzare delle interviste per ricordare i 25 anni dalla nascita di Nuovi Orizzonti. Daniela, Angela, Davide, Francesca, Paolo e don Francesco si erano seduti davanti a me e Natalina, per ripercorrere gli anni insieme alla realtà di fede e di vita nata dal sogno di Chiara. Un lavoro portato avanti dopo altre interviste per la realizzazione di un nuovo progetto.

Erano stati momenti che non si dimenticano facilmente. Due giorni, sei racconti.

Poi si torna alla vita quotidiana. Seduto insieme con Pietro e sua moglie Rossella un po’ in disparte, in mensa, a parlare di Cittadella: problemi, obiettivi, incontri, riunioni.

Chiara si era alzata dal suo posto: «Come vanno le interviste?». «Bene! Che devo dire? Sono delle persone straordinarie; in fondo credo di essere un privilegiato!» La mia risposta. Il suo sorriso. Era tornata a sedersi poco distante.

Era stata la volta di Antonio. Si era avvicinato a noi; qualche scambio di parole con Pietro.  Mi era venuto da pensare che quel ragazzo ero lo stesso che aveva raccontato la sua storia di giocatore sull’orlo della distruzione per il gioco d’azzardo in un video realizzato da Emanuele e Nicolò. Un racconto forte, dirompente il suo.

Alessia mi aveva sorriso al bar. «Dimmi qualcosa di importante tu che sei un papà!» Mi era venuto spontaneo: «Posso raccontarti quello che sto vivendo ieri e oggi qui a Cittadella!».

Già; raccontare. Quei racconti di vita e di fede erano proseguiti. Straordinari, dirompenti.

Ormai quarantenni, allora poco più’ che ragazzi, avevano abbandonato ogni cosa: case, protezioni, sicurezze, genitori, amici per vivere il loro sogno di fede. E adesso, davanti ad una telecamera, ci consegnavano quelle vite, fatte di sofferenze, lacerazioni, scelte.

Un sì ad una chiamata. Il filo conduttore. I primi anni difficilissimi. Dietro ad una ventenne che voleva cambiare il mondo e la sua vita nell’aiutare gli altri. Gli emarginati. Quelli che non avevano più speranza. «Che ne pensi?» La domanda di Natalina.

Sono testimonianze straordinarie. Sarebbe bello farle ascoltare ai giovani di oggi». Eppure c’era qualcosa di ancora più prezioso e importante.

I giorni erano passati. Il mondo continuava a girare ad andare o meno avanti. Poi… Un articolo sul corriere della sera On-line di Alessandro D’Avenia. In ricordo della strage di ebrei in Europa. Due giovani ungheresi: lui insegnante, lei poetessa. La guerra li aveva travolti, separati. Il loro amore era qualcosa di straordinario, ma lui era ebreo. Era finito in un campo di lavori forzati. Il loro volersi bene li aveva tenuti sempre legati. Non si erano più rivisti. Alla fine della guerra lei era partita alla ricerca del suo amore. In un campo, in una fossa comune aveva trovato un cappotto più che logoro, ma nella tasca un libro. Poesie, brevi racconti, scritti. Il loro legame che era proseguito. L’amore più forte di ogni cosa. Lei era tornata nella sua città. Aveva vissuto fino all’età di 104 anni. «Finché sarò in vita io racconterò la storia del nostro amore. E lui lo racconterà insieme con me». Lui si chiamava Mik, lei si chiamava Fifi.

Il raccontare. Come un testimone alle generazioni che verranno. Qualcosa di prezioso da donare a mani giunte. Da non lasciare che sfugga. Ogni parola, frase, sorriso.

A Natalina ho risposto dentro di me una settimana dopo. «Che ne pensi di quello che abbiamo ascoltato?» «Sai, penso esattamente quello che ho appena detto e scritto pensando a Daniele, Angela, Davide, Paolo, Francesca, Francesco. Il raccontare….».

In televisione vanno gli esperti, gli ospiti, i personaggi più o meno famosi. Ma la vita, la fede è un’altra cosa. Sta nei racconti di vita. Uomini e donne. Ragazzi e ragazze.  Non so perché, ma mi viene da pensare che qualcuno o qualcosa non voglia che si continui a raccontare.

Durante la guerra del Kosovo conobbi un sergente dei para che si era portato in Italia, dentro la zaino, una bimba, un neonato rimasto senza papà e mamma. Lui si era presentato a sua moglie in Italia con un piccolo fagottino di pochi mesi. Tutto illegale. Quando gli chiesi se potevo raccontare la sua storia mi rispose: «Se pensi che sia utile, fallo pure!». Qualche problema glielo creai. Ma era la sua storia.

Quello sulla nave Sea-watch, al di là dei problemi economici, politici. Sono uomini e donne. Hanno un nome e un cognome. Sono stati bambini e ragazzi. Hanno la loro storia da raccontare. Il volersi bene. Lo dice anche un certo Papa Francesco, se non sbaglio.

Don Francesco Quintavalle ci ha raccontato la sua storia. Non dico niente di più. Ma alla domanda: «Francesco, se da quella porta entrasse adesso il Francesco di 25 anni fa, che cosa gli diresti?». «Gli direi di andare avanti senza paura perché io ce l’ho fatta»

Al termine di quei racconti a Cittadella Cielo di Daniela, Angela, Davide, Francesco, Paolo e Francesca adesso lo so, il mondo mi è sembrato migliore!  

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