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Un amore capace di sfamare il cuore

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«Hai Fame?» «No!» Due occhi neri puntati come due lame pronte a ferire a qualsiasi sussulto del cuore.

Era il 2001. Ero al mio primo viaggio in Brasile, alla scoperta di un mondo lontano, mai visto, eppure subito riconosciuto, come quando sfogli un album di ricordi di famiglia: vedi volti e luoghi per la prima volta, ma sai che ti appartengono. Ero una studentessa di ingegneria convinta che esistesse una funzione in grado di spiegare e modellizzare qualsiasi realtà empirica e che in qualsiasi parte del mondo una stessa causa producesse il medesimo effetto.

Ma quel “no!” secco, arrabbiato, ruvido come carta vetrata sul cuore, non sapevo spiegarlo. Welison – i nomi in questo articolo sono inventati – aveva percorso 10 km a piedi nudi sotto il sole equatoriale del nordest brasiliano per venire da noi.

Aveva fame ed io avevo preparato un pranzo italiano con tutta l’attenzione e la cura che potevo mettere in un gesto tanto semplice e non più scontato. Ma la fame di Welison era più grande.

Era bastato aver dato un’attenzione in più ad un altro bambino prima di incrociare il suo sguardo e accorgermi della sua presenza, per sovvertire tutti principi della fisica e della chimica da me conosciuti e togliermi l’illusione che possiamo aiutare i bambini che muoiono di fame solo provvedendo a far arrivare loro del cibo.

Welison voleva amore. Prima di una tavola apparecchiata, prima di un vassoio di portata, prima di un pasto caldo, Welison voleva un amore capace di reggere il suo sguardo arrabbiato e di sfamargli il cuore.

Nel 2001 erano molte le cose che non sapevo e una di queste è che nel 2019 non sarei stata un ingegnere chimico interessato alla carriera e a produrre energia dal petrolio per un pianeta oramai al collasso ecologico, ma avrei abitato lo spazio di un piccolo ufficio di un’Associazione di volontariato, lavorando per sostenere a distanza quella stessa Missione in Brasile che ha dato la possibilità alla studentessa di ingegneria che ero di allargare i suoi orizzonti, abbracciando dentro i confini del suo cuore un mondo più grande.

Oggi promuovo progetti, redigo la contabilità, svolgo azioni di sensibilizzazione, raccolgo fondi, gestisco attività, donatori e donazioni attraverso l’utilizzo di un software gestionale. La gestione del Sostegno a Distanza non è cosa semplice. Ci sono diverse modalità di adozione e molte fasi di lavoro da gestire: l’abbinamento sostenitori/beneficiari, la gestione degli aggiornamenti provenienti dal Paese beneficiario, delle foto, delle lettere, l’invio delle comunicazioni ai sostenitori, il monitoraggio delle quote pagate, degli scoperti e la gestione dei solleciti per poter intervenire in modo tempestivo verso i sostenitori inadempienti così da non mettere in difficoltà la missione, le famiglie e i bambini beneficiari.

Il Sostegno a Distanza si trascina dietro poi tutti gli aspetti normativi legati alla privacy e gli aspetti più tecnici che riguardano l’invio dei flussi verso i propri istituti di credito incasso di SDD, la lettura dei conti correnti postali e bancari, l’analisi statistica e previsionale dei dati.

Ma tutto questo è ben lontano dall’essere solo tecnicismo per me e non ha solo un valore monetario. E questo perché, seduta dietro la mia scrivania, ogni giorno, ho ancora gli occhi di Welison puntati dritti sul cuore.

Oggi sono molte le questioni aperte sul Sostegno a Distanza: si tratta di effettiva cooperazione allo sviluppo, partecipata e civica o è uno strumento di mera raccolta fondi finalizzata all’assistenzialismo e fuori dalle logiche di sviluppo?

La questione è importante e merita di essere approfondita nei luoghi di competenza. Ma l’esito non cambierà il valore che oggi do al mio lavoro.

Io so che prima di una tovaglia apparecchiata, di un piatto di portata e di un pasto caldo, i bambini come Welison riceveranno l’abbraccio di Sandra, di Dania, di Valentina, di Francesca. So che loro rischiano la vita ogni giorno per entrare nelle favelas e così avere accesso al loro cuore. So che la cesta di beni di prima necessità che portiamo con il progetto Coração a 250 famiglie nelle favelas di Quixada e Fortaleza sono il ponte che rende possibile che la speranza semplicemente accada.

So che le quote di 25 euro che ogni sostenitore versa con fedeltà e continuità ogni mese per il Progetto “Agape”, per il Progetto “Amico della Missione” o per il Progetto “Coracaò”, oggi permettono a Linda – nome inventato – di non subire abusi dal patrigno, a Marcos – nome inventato – di non andare ad elemosinare in strada, ad Adrian – nome inventato – di non sniffare colla buttato su un marciapiede.

Questo ha un nome: amore. E ha una caratteristica: è concreto. E’ amore concreto. E nasce nel cuore di tanta gente di buona volontà, che ha poco da questionare sul significato del termine e si fida, passa per poveri impiegati di ufficio come me, cavalca gli oceani per raggiungere missionari eroici impegnati in prima linea, e diventa vicinanza, ascolto, amicizia, consolazione, speranza, futuro, prima ancora di diventare pane, prima ancora di diventare casa, prima ancora di diventare scuola, prima ancora di diventare lavoro.

Ma mai, mai, senza la determinazione e l’impegno a diventarlo.

Lucia Tognarini

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