Pensieri e RiflessioniSocietà
Io in Te trovo la forza per non gettare la spugna
Io sono Margherita. Questa è la mia vita!
Ci sono momenti particolari che lasciano il segno. Non sono delle interviste, non sono attimi che riusciamo a prevedere. Sono degli incontri che ti coinvolgono, che ti fanno riflettere, ma soprattutto sono degli incontri di una umanità che mai si sarebbe creduto di poter vivere e, condividere insieme con altre persone.
Uno di questi incontri è iniziato per me qualche mese fa.
Siamo tre giorni a Cittadella Cielo a parlare di gioia, di vita, di entusiasmo.
Prima che iniziassero i tre giorni una ragazza, una donna, di nome Margherita, si è avvicinata a me insieme ad una sua amica, Manuela. Ci siamo salutati e la prima cosa che ho notato erano i suoi occhi chiari, cristallini. Piccolina, minuta.
È venuta verso di me: “Tu sei Roberto!”. “Tu sei Margherita!”. Poche parole.
Si, perché quella donna che adesso avevo davanti, prima dei tre giorni a Cittadella, l’avevo conosciuta qualche mese prima in un paesetto, piccolo di 1000 abitanti in provincia di Campobasso, Petrella. Ero li perché un sacerdote aveva organizzato un incontro, un Festival dei Giovani.
Durante una pausa di questo festival dei giovani in cui si parlava di giornalismo, arte, cultura e fotografia, con mia moglie Mariella e mia figlia Erica, sono entrato in una chiesa. Sapete, quei momenti in cui non si sa neanche perché accadono. Ero entrato in una chiesa piccola, antica, di Petrella, di questo paese di l000 anime. In fondo alla chiesa una voce. È la voce di Margherita, ma io ancora non lo sapevo. Stava parlando ad alcuni giovani ragazzi. Si perché, vedete, Margherita è una donna di 40 anni che 5 anni fa ha scoperto di avere un tumore al cervello; una brutta, bruttissima malattia.
Raccontava la sua storia, parlava di lei ma non la vedevo. Nella penombra sentivo soltanto la sua voce che raccontava la sofferenza, il dramma di scoprire questa malattia, l’impossibilità di avere un futuro.
Parlava di tante cose ma mi aveva colpito una frase, quando una delle ragazze del gruppo le ha fatto una domanda sull’amore e lei ha risposto:
“lo vorrei tanto conoscere un giovane un uomo che mi apra la portiera della macchina, cioè abbia attenzione per me, che mi ami veramente!”.
Un frase che conteneva un gesto di una semplicità sconvolgente ma, in quel contesto della sua vita e della sua malattia mi ha fatto riflettere. Dolore, sofferenza, malattia; avevo sopportato tutto questo racconto fino a un certo punto, poi sono uscito quasi sbattendo la porta della Chiesa.
Mi dava fastidio tutto quel dolore, quella sofferenza che Margherita comunque non traspariva o non voleva comunicare. Ero uscito fuori, era estate, la fine di agosto. Avevo trovato davanti a me Elena Martelli, la cantante di Nuovo Orizzonti; un’amica che stava giocando con i propri bambini, fuori, vicino a una fontanella d’acqua. Ero arrabbiato e le avevo detto quello che era successo.
Una telefonata di un mio direttore della Cairo ha interrotto tutti questi pensieri. Gli avevo comunicato subito questa voce che era arrivata: la storia di Margherita.
L’estate era passata e avrei voluto incontrare Margherita. Non so perché, per quale ragione. Delle volte nella vita non si hanno neanche dei motivi perché si vuole qualcosa; volevo sapere come stava, volevo rincontrarla. In effetti non l’avevo neanche conosciuta; avevo soltanto ascoltato la sua voce. Ma tanto era bastato. Ho chiesto a Don Donato: “Come sta Margherita?”. Mi ha detto: “Stabile, sta lottando con la sua malattia”.
L’avevo rincontrata alcuni mesi dopo. Pochi giorni fa ci siamo rivisti a Cittadella all’incontro con Chiara Amirante. Il tema: Gioia piena.
Le avevo chiesto se potevamo fare l’intervista e lei mi ha detto: “Più che un’intervista, io parlerei di un incontro!”. Questo mi aveva stupito. In una pausa dei lavori qui a Cittadella eravamo usciti all’aperto. Seduti su una panchina nel piazzale antistante la struttura. Insieme a lei, Manuela, la sua amica. Ci siamo messi seduti.
Esseri umani, storie diverse, tre destini diversi; forse però c’è l’amore che ci ha fatto incontrare. Quel vento che ci volava intorno ci fa sentire la sua presenza. E’ come se ci avesse fatto incontrare, come se avesse fatto in modo che ci mettessimo su quella panchina a dialogare tra di noi, a parlare.
Una domanda semplice, scontata: “Come stai?”.
“Sto lottando. I dottori dicono che la mia malattia è stabile”.
Noto subito i suoi occhi lucidi, rincontrati come se li avessi avuti praticamente sempre dentro di me. Aveva la mano che gli tremava leggermente, ma la voce era ferma, con un tono efficace e lineare. Tutto era compreso nella parola lieve, lievemente. È come se il vento a un certo punto smettesse di soffiare intorno a noi, come se si fosse calmato, come se permettesse tranquillamente di vivere una giornata di sole tiepida, perché quell’incontro avesse inizio.
- Com’è iniziata la tua malattia Margherita? Come te ne sei accorta?
Risponde: “5 anni fa ho cominciato a perdere peso. Ero una ragazza delle tante, 35enne, ero una funzionaria, avevo il mio lavoro. Era un po’ cattivella; io sapevo che i miei colleghi o subalterni mi chiamavano con una brutta parola: stronza, cioè una che ne combinava di tutti i colori. Avevo dei valori, sì, però insomma ero quella che ero. Poi, è arrivata la malattia, la comunicazione del dottore a mia madre che non me l’ha voluto neanche comunicare nei primi giorni. In seguito me l’ha dovuto dire perché perdevo peso, stavo male, avevo dei giramenti di testa: tumore al cervello! Parole abbastanza semplici ma devastanti. Parole che ti uccidono nel profondo.”
- E allora, Margherita, che hai fatto?
“Sai, c’è una cosa che ho fatto ed è stata quella di arrabbiarmi: perché proprio a me? La seconda cosa che ho cominciato a fare è pensare al mio passato, quasi che i miei genitori e i miei nonni mi potessero sostenere in qualche maniera. Dei miei nonni ho il ricordo di due persone che si amavano e rispettavano profondamente. Quando ero piccola mi ricordo che ballavano tra loro e mi dicevo: quando diventerò grande voglio essere come loro, trovare un amore come il loro, fare una vita come la loro. Ero piccola, ma avevo le idee abbastanza chiare. Quell’amore me lo sono portata dentro durante tutta la mia adolescenza”.
- E allora Margherita, che hai fatto dopo?
“Ho cominciato le cure devastanti, dolorosissime. Mio padre era sempre accanto a me. Mio padre è morto 18 anni fa, mi ha lasciata sola, ma è sempre accanto a me.
Quand’ero piccola, bambina, sentivo l’odore di mio padre e questo mi dava sicurezza; quell’odore continuo a sentirlo anche adesso nei momenti difficili, anche quando sono sola con i medici che mi curano, io sento l’odore di mio padre; quando ho dolore, mi rivolgo a lui e, sento quell’odore. Non è soltanto il frutto della mia mente. E’ mio padre accanto a me! Quell’odore mi rassicura, come quando ero bambina, perché sai, io l’amore non l’ho mai conosciuto. In fondo ho avuto un amore, ma un amore fallito. Però non te lo racconto perché non voglio parlarne”.
Abbassa per un momento gli occhi. Solo per un istante.
“Sono andata a Medjugorje, ma non volevo un miracolo; non so perché ci sono andata. Ho cominciato a scoprire li la mia fede, a Medjugorje. Qualcuno potrebbe dire che siccome sono malata alla testa, sono completamente matta. Però ti assicuro che a Medjugorje, mentre stavo salendo lungo la collina, qualcuno mi ha chiamata: Margherita! Io mi sono voltata ma non c’era nessuno. Ma qualcuno, ti assicuro, mi ha chiamata! Puoi immaginare che cosa ho provato. Come punto di riferimento adesso ho Madre Teresa; non so perché lei, però mi piace leggerla, mi piace la sua forza, quella frase meravigliosa che dice: la vita è una sfida, affrontala! Nonostante la malattia, questa è la mia vita e io alla mia vita ci tengo, la mia vita è fatta anche… della malattia. E’ comunque vita perché io voglio amare”.
- Mi ha colpito quando ero a Petrella, ti ho sentito dire: “Vorrei qualcuno che mi apra la portiera della macchina!
“Si, è vero, qualcuno che mi apre la portiera della macchina. È un amore semplice quello che voglio; l’amore è semplice e potente allo stesso modo. Io non voglio rinunciare ad amare perché amare vuol dire anche sorridere quando sono accanto a dei medici che mi fanno dei trattamenti. I trattamenti sono molto dolorosi: sono degli aghi messi da sveglia dentro la mia testa, poi mi devono trovare le vene che ormai non ho più perché i farmaci hanno provocato un indurimento delle vene quindi è tutto molto doloroso. Però ci sorridiamo, continuo a sorridere nel dolore, nella smorfia di dolore cerco sempre il sorriso: il sorriso di chi mi aiuta a combattere una malattia e il sorriso che io voglio dare a loro perché li ringrazio di tutto questo!”.
- Senti, Margherita, ma se tu adesso potessi entrare a Cittadella e parlare a 600 persone, che cosa gli diresti gli diresti?.
“Gli direi che le mani le devono usare non per metterle sulla testa per pensare razionalmente, ma sul cuore che è molto più efficace, perché la testa ogni tanto ti tradisce, ma il cuore difficilmente ti tradisce! Questo gli direi! E direi anche un’altra cosa ai sacerdoti: che devono avere più fede, che devono credere di più, perché la fede è il motore del mondo, la fede ti fa vivere, io ho capito che la fede è vita e la vita è fede; è la stessa cosa. Mi aiuta anche un’altra parola: silenzio. Quando sei in silenzio, quando sei malata, quando senti che ti stanno venendo gli attacchi di epilessia -a proposito: io non posso andare molto lontano dagli ospedali, devo sempre stare vicino perché se ho un attacco di epilessia nel giro di 6 ore devo stare in trattamento in ospedale- il silenzio mi aiuta, come ti dicevo, il silenzio per me è importante”.
Mi fermo un attimo e faccio fatica ad andare avanti. Vedo le lacrime della sua amica Manuela, accanto a me. Guardo gli occhi di Margherita. Occhi specchio dell’anima. Non so perche ma, mi viene da pensare che i suoi occhi sono anche adesso, mentre parla, proiettati verso orizzonti lontani.
“Io amo il silenzio – dice Margherita – amo quel silenzio che mi mette in ricerca della mia fede, delle ragioni della mia vita. Non cerco le ragioni del mio dolore; il mio dolore fa parte della mia vita, è tutt’uno con la mia vita. Sono in ricerca e odio che qualcuno mi consideri un fenomeno da baraccone da portarmi come la persona che ha un dolore, come una persona che ha un tumore, un tumore al cervello!”.
È qui che viene forse il momento più significativo del mio incontro con Margherita. Le domando:
- Se tu con un colpo di bacchetta magica potessi tornare indietro di 5 anni, quindi cancellare la tua malattia e tornare come eri prima, cancellando tutto quello che mi hai detto, tutto quello che hai capito, tutto quello che hai trovato: la fede, la speranza, tutto completamente, tutto compreso, il dolore, non essere più malata, torneresti indietro?
La risposta è sconvolgente. Non si ferma neanche un secondo a pensarci. Mi fissa negli occhi, con quegli occhi chiari cristallini e la risposta è:
“No! Non tornerei indietro, perché ho capito tante cose, ho capito l’importanza della vita. Devo essere me stessa, essere Margherita!”. Questa è la vita di Margherita?”
- Tu a Petrella hai detto una cosa alla fine dell’incontro con i giovani e io l’ho sentita uscendo dalla chiesa. Hai detto: “Pregate per me!”.
“Certo che ho detto: pregate per me! Tutti dovrebbero pregare per i propri simili, non solo per quelli malati. Il problema è che molti non lo fanno. E poi sai, c’è la paura: c’è il dolore che fa parte della mia vita, cerco di elaborarlo, cerco di viverlo, però la paura c’è. Certo, ho chiesto di pregare per me”.
- Ma tu credi nel paradiso?
“Certo che credo nel paradiso. Vorrei anche andarci perché sono sicura che quando andremo dall’altra parte il Signore ci chiamerà uno per uno, nome per nome, perché ci conosce tutti e a quel punto io voglio che mi chiami per dirmi: Margherita, entra in Paradiso, va in paradiso!”.
Faccio fatica ad andare avanti, faccio fatica a continuare. Cerco un appoggio professionale, ma lei ha detto che non devo pensare con la mente, devo pensare con il cuore. Ma il cuore mi dice tutt’altro, mi dice di smetterla di fare domande.
Poi, Margherita mi stupisce ancora una volta. Si ferma un attimo, siamo in piedi, la gente sta uscendo dall’incontro di Cittadella e lei mi dice:
“Senti, io adesso ho fatto questo incontro con te, ci siamo parlati – Io dice quasi sorridendo sempre in quella maniera lieve – io ho fatto qualcosa per te, ci siamo parlati, ci siamo conosciuti. Tu adesso fai una cosa per me!”.
Io rimango stupito, un po incredulo allo stesso tempo. Non so che cosa mi chiederà Margherita. Siamo tutti e tre in piedi: Manuela, la sua amica, lei di fronte a me Io leggermente distante. Mi dice:
“lo ho visto due giorni fa come hai abbracciato tua figlia e questo mi ha ricordato molto mio padre. Allora fai qualcosa per me: abbracciami!”.
L’abbraccio è semplice, come un abbraccio di due esseri umani. Io le dico abbracciandola: “Coraggio!”. Lei mi guarda come per dirmi: “Coraggio ne ho e ne ho tanto. Però questo abbraccio mi serviva e ti ringrazio!”. Le parole vanno via col vento che ha iniziato di nuovo a soffiare. L’incontro è finito, ma io so che quel messaggio di Margherita, quel testimoniare la sua fede, la sua vita -che poi lei ha detto sono la stessa cosa- rimarrà sempre.
Non so come concludere questo incontro. Riporto soltanto le parole di una canzone che sentirò poco dopo a Cittadella:
“In Te trovo la forza, per non gettare la spugna!”.