Ogni nuova versione di Pinocchio è un evento. Ad un tratto ci accorgiamo che la stavamo aspettando, con un desiderio quasi infantile: che qualcuno ce la raccontasse ancora. E forse stavolta aspettavamo qualcuno che ci raccontasse la storia originaria, così come era uscita dalla penna ottocentesca di Collodi, qualcuno che ci riportasse nel mondo ruvido di quella favola, dove camminando nel panorama scalcinato di una provincia povera s’incontrano del tutto naturalmente falegnami, gendarmi, gatti e volpi, carabinieri e fatine. Più che in una favola il desiderio è forse immergersi in un realismo visionario, in cui la realtà nella naturalezza della sua quotidianità contenga anche i sogni, i desideri, il mondo che non si vede.
È quello che ha fatto un regista che aveva già dimostrato di saper raccontare il realismo delle fiabe (‘Il racconto dei racconti’, 2015), Matteo Garrone. Il suo ‘Pinocchio’ (2019), uscito a Dicembre nelle sale italiane, giura fedeltà all’originale, parola dell’autore: ‘Ho cercato di fare un film che potesse arrivare a tutti, popolare, così come il grande capolavoro di Collodi’. Il risultato però è un film notevole sul piano estetico, ma che riserva il tuffo al cuore solo al finale, smarrendo nella narrazione cinematografica la verve propria delle avventure del burattino più celebre della storia.
Con i colori, i paesaggi, i mostri sono parti coerenti di un fantasy volutamente artigianale, che come detto non toglie realismo alle scene, ma lo rende visionario e spinge gli spettatori a scendere nei piani nascosti della storia, i sentimenti, i rischi, il bene, il male, il passaggio plurimo nella morte che caratterizzano immancabilmente l’avventura di essere al mondo.
Scendiamo anche noi per qualche momento in questo labirinto alla ricerca del senso che nasconde, che è forse il motivo per cui vogliamo sempre che qualcuno ci racconti la storia di Pinocchio.
Una storia che attraversa secoli e mondi, perché il nostro burattino con oltre quaranta versioni fra cinematografiche e televisive susseguitesi ininterrottamente dal 1911, decine di rielaborazioni teatrali, musical, spettacoli per burattini e circensi, fumetti, opere d’arte e persino un asteroide che porta il suo nome (12927 Pinocchio, scoperto nel 1999), è una vera star mondiale dell’immaginario. Come tutte le star, anche lui è ricercato, desiderato, strattonato, nel suo caso da chi lo ha vestito di ruoli e interpretazioni e gli ha attribuito parentele culturali disparate: dai vangeli apocrifi all’esoterismo, al titolo di catechismo dell’Italia unita nel binomio con ‘Cuore’ di De Amicis.
La cosa straordinaria è che Pinocchio si mostra irriducibile e sfugge a qualunque associazione con la stessa leggerezza con cui scappa di casa appena Geppetto ha finito le sue gambe. Non tollera nemmeno la giacca dignitosa del maestro, non lontana dalle intenzioni iniziali dell’autore venate di sincero spirito pedagogico.
Pinocchio è altro, è cosa profonda. Si divincola, e scappa, marina la scuola e corre per il mondo, rischia di essere ucciso una prima volta da Mangiafoco, si lascia ingannare, derubare, incontra gli assassini e quasi muore impiccato, viene salvato dalla fata millenaria, che lo porta a casa sua e lo fa guarire, e poi di nuovo si fa ingannare, va in prigione, torna dalla Fata ma trova che è morta, e allora finisce in mare, ritrova la Fata e la sua casa, ma la perde ancora, diventa un ciuchino non prima di aver corso il rischio di essere fritto in padella, il tempo di tornare un burattino e finisce nella pancia di pesce-cane, dove ritrova suo padre prima di tornare finalmente a casa con il padre Geppetto.
Sintesi in una frase delle ‘Avventure di Pinocchio’:
un burattino scappa e ritorna a casa tante volte, in tanti modi, fino a quando ci torna per sempre e diventa un bambino.
Ho contato almeno 5 case: quella di Geppetto, quella della Fata (in cui dopo la guarigione di Pinocchio sarebbe andato a vivere anche il falegname e sarebbe stata la ‘loro’ casa), quella della signora sull’Isola delle Api industriose, la pancia del terribile pesce-cane, in cui ritrova il padre e ricostruisce quella casa iniziale che poi diventerà la nuova e definitiva casa del finale. Per non parlare di altri luoghi, prigione compresa, che hanno almeno parzialmente la funzione di una casa, perché lì il monello torna in sé.
La storia di Pinocchio è considerata naturalmente un romanzo di formazione, una metafora del cammino dell’uomo,
ma se c’è un labirinto interiore in cui lettori e spettatori sono spinti è quello della perdita e del ritorno a casa.
Dunque una storia che abbiamo già scritta dentro, tutti, una storia che conosciamo ma che nello stesso tempo è mistero, l’avventura della nostra libertà.
Vogliamo che qualcuno ce la racconti perché vogliamo sempre che qualcuno ci racconti, ci riconosca e ci dica chi siamo,
come successe ad Ulisse sotto mentite spoglie alla corte dei Feaci.
E perché vogliamo che a qualunque punto della vita siamo, qualcuno ci riporti, anche solo per un po’, a casa.
Massimo Leone